Le testimonianze degli antichi e gli infiniti reperti ci raccontano la storia millenaria dell’Olea europea sativa fluida tra realtà e leggenda, mito e religione. Partiamo dai Greci: Atena (dea dell’intelletto) e Poseidone (dio del mare) erano in gara per assegnare il proprio nome alla città in costruzione. Zeus, (il re degli dei) per decidere come assegnare la vittoria stabilì che “La città avrebbe avuto il nome del dio che avesse fatto il dono migliore per l’Umanità”. Poseidone donò un magnifico cavallo bianco per alleviare le fatiche del lavoro degli uomini. Athena, percosse la terra con la propria lancia e, improvvisamente, sorsero alberi con le foglie argentee: era nato l’albero dell’olivo. Zeus assegnò la vittoria alla propria figlia Athena e la città prese il nome di Atene; donando l’albero dell’olivo, Athena aveva donato all’Umanità, luce, per via dell’uso delle lampade, sostentamento e il simbolo della pace, perché comunque con i cavalli si fa la guerra, perché è probabile che Atena rappresentasse ancora la dea Madre Terra e Poseidone il dio Padre …
Nell’antica Grecia i vincitori dei Giochi olimpici e i coraggiosi vincitori di battaglie venivano onorati con ghirlande di rami di ulivo. Gli Spartani seppellivano i loro defunti su un letto di ramoscelli di ulivo per proteggerne le anime, mentre coloro che assistevano ai funerali indossavano corone di rami di ulivo per proteggere se stessi dal male.
Per il popolo ebraico fu Dio a donare ad Adamo, ormai prossimo alla morte, dopo 900 anni di vita, i tre semi che il figlio Seth pose tra le sue labbra prima di seppellirlo e dai quali germogliarono il cedro, il cipresso e l’olivo. Gli ebrei hanno un rituale dove l’olio diventa sacro: la presenza di olivi e olio è segno della fertilità del paese in cui Dio sta per introdurre Israele e della benevolenza di JHWH nei confronti del popolo eletto, perciò il popolo non deve dimenticare i benefici ricevuti. L’albero dell’olivo diventa simbolo del popolo di Israele. Noè attese altri sette giorni e di nuovo fece uscire la colomba dall’arca e la colomba tornò verso sera e aveva nel becco un ramoscello d’olivo. Noè comprese che le acque si erano ritirate dalla terra.
Per gli Egizi: Alla Dea Iside, moglie di Osiride, gli antichi egizi rendevano omaggio per aver dato loro la capacità di coltivare il sacro albero. Agli Egizi serviva per la mummificazione ed ai sacerdoti babilonesi per la predizione del futuro.
Per i cristiani: l’olio di oliva era ampiamente utilizzato nell’ambito di cerimonie religiose e rituali come i battesimi o all’interno di templi, così come per consacrare il capo di re, nobili e persino condottieri vittoriosi.
Per gli Italici, soprattutto per le streghe, durante la Festa di San Giovanni la notte del Soltistizio d’Estate tra il 23 e 24 giugno è possibile sapere con un piattino di olio se si ha o meno il malocchio. La guarigione del corpo e la salvezza dell’anima sono state per secoli possibili in virtù del ricorso all’olio ricavato dalle olive. Le lampade votive costituivano il mezzo attraverso cui i santi taumaturghi esplicavano i propri poteri carismatici. L’olio benedetto e salutifero veniva considerato un autentico toccasana.
Per la Sicilia: Aristeo, figlio di Apollo e della principessa Cirene, durante il suo viaggio in Sicilia insegnò agli abitanti dell’isola l’arte della coltivazione degli ulivi e della spremitura dell’olio; anche nell’Odissea gli ulivi vengono citati, Ulisse, pare che abbia accecato il ciclope Polifemo proprio col tronco di un ulivo.
Comunque la coltivazione era già praticata: a Creta, nell’età minoica (3000-1500 a.C.), in Egitto (2000 a.C.), in Palestina (1000 a.C.). I fenici la introdussero in Grecia tra il IX e il VIII secolo a.C. e i greci, poi, la introdussero in Sicilia. Nonostante l’ulivo sia arrivato ad opera dei greci (o dei fenici), è stato soprattutto durante la dominazione araba che si è assistito ad un incremento della produzione e ad un affinamento delle tecniche di lavorazione. Infatti, molti termini legati alla sfera dell’olio derivano proprio dell’arabo, esempio: il termine giara, deriva dall’arabo “giarra”.
La vite maritata
I primi in Italia a coltivare la vite partendo dalle varietà selvatiche sono stati gli Etruschi. Pianta che conoscevano nel loro ambiente naturale, di cui raccoglievano i frutti nei boschi, come le bacche selvatiche. La vite selvatica, Vitis vinifera sylvestris, era una specie autoctona dell’area mediterranea e in Italia già trovava le sue condizioni ideali. Attualmente è possibile trovare viti selvatiche nei boschi italiani, pur facendo attenzione a distinguerle da viti coltivate di vecchi vigneti abbandonati, che poi si sono inselvatichite. Infatti le varietà coltivate derivano dalla vite selvatica, che è stata modificata con millenni di selezioni ed incroci. Gli Etruschi coltivavano la vite fin dall’età del Bronzo, almeno dal XII sec. a.C. Con lo sviluppo della civiltà, gli Etruschi ebbero contatti con i popoli del Mediterraneo orientale, dove cultura e tecniche viticole erano già più conosciute. Così affinarono le tecniche produttive, e importarono nuovi vitigni di origine orientale, dove la domesticazione era iniziata nell’area del Caucaso. Così i nuovi vitigni vennero coltivati e incrociati con le varietà locali. Come viene praticata la coltura della vite maritata? La vite è un arbusto rampicante, come una liana, per cui tende ad arrampicarsi su un albero ed essendo eliofila, cioè amante della luce solare, cerca di raggiungere il più possibile i suoi benefici raggi. Ma la sua bellissima prerogativa è che non essendo una specie parassita, non influisce sulla crescita dell’albero a cui s’aggrappa. Magari succedesse così tra gli esseri umani che hanno bisogno gli uni degli altri: il termine “maritata” però lo dobbiamo ai Romani antichi. Le viti erano allevate su soprattutto su aceri campestri, ma anche pioppi, olmi, ulivi ed alberi da frutto. Con i romani comparve però l’esigenza di distinguere due forme diverse di coltivazione.
“L’arbustum” indicava la vite maritata. “Vinea” invece indicava la nuova coltivazione a vite bassa. Entrambe appartenevano alla categoria generale del vinetum (vigneto). Quando nell’Ottocento la viticoltura diventò una scienza, vennero scritti diversi trattati agrari che descrivevano nel dettaglio i sistemi tradizionali italiani. La viticoltura italiana ottocentesca nel centro-nord, era rimasta ancora di base quella dell’arbustum italicum (alberata) e dell’abustum gallicum (piantata) dell’antica Roma. Da questi due tipologie archetipali, si differenziarono una molteplicità di sistemi diversi. Si usa spesso il termine “alberata” per indicare sia l’uno che l’altro sistema. Gli alberi proteggevano in parte le viti da brina e grandine e fra gli alberi si potevano coltivare altre specie agricole. É chiaro che questi vantaggi appartengano ad un’agricoltura promiscua, ad un mondo contadino che nel Novecento era ormai al tramonto. Il secondo dopoguerra assistette ad una profonda trasformazione del mondo contadino italiano. Infatti la realtà produttiva moderna richiedeva ormai una viticoltura altamente specializzata. In questo nuovo mondo la vite maritata, sopravvissuta per oltre tremila anni, non trovò più posto. Approfondiremo questo e altri argomenti con storie avvincenti basate su studi e scoperte personali, chi scrive oltre ad essere psicologa, filosofa e teologa, è un’esperta di Miti e Culture del Mediterraneo.
Il 10 giugno questi e altri argomenti faranno parte della manifestazione