Conosciuto durante Le Cene Regionali, Marco Falcone di Piazza Scammacca a Catania è stato subito “amore”!!! Marco è un giovane ragazzo ma con un’anima antica, come vedrete dall’intervista, che ama la cucina l’architettura e la psicologia cercando riunire la tradizione con l’innovazione, dando un tocco di poesia ai suoi interventi in “aula Scammacca” come l’ho ribattezzata io. Sì, secondo la mia pluriennale esperienza di convegni, conferenze, lectio magistralis, in Italia e in Europa, sia come relatrice che come ascoltatrice, posso affermare che le idee di Marco Falcone contestualizzate nell’open space di Piazza Scammacca, ti fanno ribadire il glorioso concetto di glocal, “pensa globalmente e agisci localmente”. E fortunatamente Marco è un altro “cervello” che invece di fuggire resta qui, in Sicilia. E “produce e divulga: Cultura, anche enogastronomica!!!”
Ma partiamo già dalla definizione di Piazza Scammacca: “Un luogo di incontro, scambio e inclusione sociale dove tutti sono i benvenuti e ciascuno trova la propria dimensione, contribuendo a creare una comunità vibrante e vitale”.
Per arrivare a comprendere chi sia Marco Falcone, gli abbiamo fatto delle domande, per parlarci anche della sua esperienza sulla pagina di Instagram dal nome “Uccalamma”, parola in dialetto che significa figurativamente “Bocca dell’Anima” e sulla sua passione di scrivere poesie in siciliano e soprattutto in rima “baciata” che lui ha il “coraggio” di declamare in pubblico. E voi penserete: Sì, è così che l’ho “conosciuto e amato” in una serata alle Cene Regionali di Piazza Scammacca. “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia.” (W. Shakespeare, Amleto). E ci sono altri mondi da scoprire sia in ambito culinario che enologico: e noi ispirandoci al Bardo (n.d.r. William Shakespeare) e al citato da Marco che cita a sua volta, il favoloso scrittore François Rabelais “Gargantua e Pantagruel”, confidiamo in tale ispirazione che ci possa accompagnare nelle nostre elucubrazioni future.
Susanna Basile: Chi è Marco Falcone?
Marco Falcone: È un giovane curioso di 26 anni. Gli piace definirsi pantagruelico, riferendosi al personaggio del romanzo di François Rabelais “Gargantua e Pantagruel”: in questo senso si ritiene “affamato di tutto”. Affronta un percorso universitario in Architettura che fa nascere in lui una profonda curiosità per la storia e l’arte, ma soprattutto per la cucina che oggi è diventata il suo lavoro, o come direbbe la sua missione.
S.B.: Quindi la tua passione nasce da un vero afflato: l’architetto “affamato di tutto”, come e quando nasce il tuo concept food?
M.F.: Nutro col cibo dei legami profondi e intensi già dalla prima infanzia, complice una famiglia che attraverso il rituale del convivio mi ha insegnato a tenere insieme gli affetti. Se dovessi catalogare i momenti, forse più importanti della mia vita, credo che il cibo abbia sempre fatto da contorno. Sia nel bene che nel male.
Ricordo da piccolissimo che mio nonno materno, amante del pesce, mi portava con lui in Pescheria a Catania. Sento ancora nitidamente gli odori di mare e i profumi delle “olive cunzate”, (n.d.r. olive condite, con olio, peperoncino e prezzemolo, a seconda delle combinazioni con sottaceti, di carote, cavolfiore, sedano e aglio). E poi gli occhioni dei pesci, le branche, le squame così il nonno mi istruiva nel riconoscere il pescato del giorno. La nonna, che riuniva sotto la sua cucina accogliente tutta la numerosa famiglia e le ricette coi suoi profumi antichi. Più crescevo e più l’animo bonario ereditato dalla nonna voleva prendersi cura dell’altro attraverso il cibo. Dall’aglio e olio, agli amici ebbri, ai piatti preparati per i primi amori attraverso i quali cercavo di regalarmi come delizioso assaggio, dolce coccola. Poi l’università: essere fuori dalla mia città natale, mi ha avvicinato alla necessità di prendermi cura di me, ogni giorno e quindi di approcciarmi alla cucina in maniera quasi rituale. Poi per gioco L’1 aprile 2017, quasi un pesce d’aprile, aprì questa pagina Instagram di cucina dal nome “Uccalamma”, parola in dialetto che significa figurativamente “Bocca dell’Anima” e che coincide poi con la bocca dello stomaco. É stato un richiamare lo spirituale in un attività che oggi per la stragrande maggioranza delle persone è vissuta in maniera puramente materiale. Da lì la cucina non è più uscita dalla mia vita.
S.B.: Ti ho chiesto quale fosse la tua qualifica, per poterti identificare nell’ambito del “cibo” o come abbiamo definito prima un termine nel “concept food”: perché non ti piacciono le etichette?
M.F.: Le uniche etichette che mi piacciono sono quelle di un buon vino, per il resto preferisco abbracciare la complessità delle cose senza rinchiuderle in concetti precostituiti. Credo fortemente nell’evoluzione degli esseri umani e nella biodiversità che ognuno di essi può esprimere e sono fortemente contrario all’iperspecializzazione che contraddistingue la società moderna. Io stesso non amo definirmi nel mio lavoro e amo cambiare spesso punti di vista.
S.B.: Quando parli di cibo mi racconti che è “cultura sociale”: che cosa intendi in questo termine?
M.F.: Il cibo guida la nostra società dagli albori: è sicuramente qualcosa che ci nutre biologicamente, ma anche spiritualmente e culturalmente. Il cibo è simbolo dei cambiamenti climatici, delle differenze di classe, dei rapporti interpersonali. Tutto ciò che riguarda il cibo non è mai pura sopravvivenza ma ad esso sono legati.
S.B.: Come si può recuperare la tradizione familiare attraverso il cibo?
M.F.: Credo che la più grande problematica moderna attorno al cibo sia la distanza sia fisica che conoscitiva dei metodi di produzione legati alla terra o alla trasformazione, e il consumo in quanto processo finale di una catena. Le nuove generazioni sconoscono i processi produttivi, le attese per i buoni prodotti ecc. A mio avviso bisognerebbe riavvicinarsi ai processi, fare dei piccoli orti in casa, fare il pane, prendersi cura di un lievito madre. É la cura verso noi stessi e gli altri che salverà il mondo.
S.B.: Che cos’è il comfort food ovvero “cibo del conforto”, per cui in lingua inglese si intende “un qualsiasi alimento a cui ciascun individuo attribuisce un valore consolatorio, nostalgico e/o sentimentale”?
M.F.: Un bel piatto di pasta con le lenticchie.
S.B.: Che cos’è la cucina del “recupero”?
M.F.: La valorizzazione di tutto ciò che ci dà a disposizione la natura, innalzandola a prelibatezza. Ovvero la cucina anti-spreco e del riciclo fa parte da sempre (o quasi…) del nostro patrimonio culinario. Molte ricette della tradizione, infatti, sono nate dalla fantasia delle nostre bisnonne ma soprattutto dall’arte di “doversi arrangiare”, sfruttando tutto, ma proprio tutto, quello che avevano a disposizione: questo ha aiutato a trasformare avanzi e risorse inusuali e povere, come il pane raffermo, le erbe di campo o rigaglie di tutti animali macellati, in componenti essenziali della cucina di “necessità” diventata in seguito tradizione.
S.B.: Quando si parla, e tu intendi, del “sacro” rispetto delle “materie prime”, di cosa spieghi e racconti alle persone che collaborano con la tua “missione” nell’ambito del “concept food” ?
M.F.: Se non avessimo questa apparente abbondanza nei supermercati e capissimo quanto sono importanti le nostre risorse, quanta cura c’è stata per produrla sia da parte dell’uomo che della natura, capiremmo tutti meglio cos’è il rispetto per la materia prima. Per questo parte del mio lavoro inizia dal visitare le aziende, conoscere le persone che stanno dietro un progetto.
S.B.: La poesia, anzi la poiesis, “il fare dal nulla” e la praxis una teoria, lezione o abilità che viene messa in atto, incorporata, realizzata, applicata o messa in pratica con il cibo, una storia infinita…
M.F.: La poesia e la praxis diventano un modo per raccontare l’eroticità del cibo e dare importanza e nuova veste a prodotti fondamentali per la mia cucina.
E qui finiamo, almeno per ora, limitandoci a trascrivere il testo della poesia “Mulinciana Friuta” perché se volete sentire declamate le sue “liriche” dovete partecipare al prossimo evento, che avrà luogo il 12 marzo, che sarà la puntata della “Lombardia, dalle montagne Valtellinesi alle sponde del lago di Garda”.
Mulinciana Friuta di Marco Falcone
Ti vulissi a fomma/I mulinciana/Tagghiata fina;/di fora amara comu u vilenu/di intra ruci comu a racina./Ti vulissi friuta/ma su tt’attrovu,/e Diu m’aiuta,/m’accuntentu macari su si arustuta./Senz’i tia/sugnu pasta ca sassa/mi inchiu a panza/ma nun m’abbasta./Su di miniscanza/Caschi ndo piattu/senza ricotta salata/non mi rugnu u saziu./Pi carità/non ti vogghiu buttana,/ma mi piacissi senza scoccia/nda parmigiana./Si estiva/Comu l’amuri;/Niura comu/La notti,/senz’i tia/sugnu latti/senza viscotta