La missione principale dell’Associazione G.R.A.S.P.O., come ci spiegherà il professore Attilio Scienza, è di coltivare i 100 vitigni che vi presenteremo in una serie di articoli che sono a rischio di estinzione e di raccontarvi le aziende che stanno effettuando questi esperimenti per salvaguardare le specie che altrimenti andrebbero perdute. L’articolo è tratto dall’introduzione del volume 100 CUSTODI PER 100 VITIGNI, LA BIODIVERSITÀ VITICOLA IN ITALIA a cura di Aldo Lorenzoni.
Attilio Scienza: “Uno degli aspetti più contraddittori della ricerca viticola è rappresentato dalle difficoltà che hanno le sue scoperte ad essere comunicate, malgrado la capacità dei suoi argomenti nel contribuire al fascino della narrazione dei territori e dei suoi vitigni antichi. C’è però un argomento rappresentato dai risultati della genetica applicata allo studio dei rapporti di parentela tra i vitigni che affascina anche il profano perché la curiosità di conoscere i legami dei vitigni con la storia, i popoli, le migrazioni è analoga a quella che cerchiamo di soddisfare con gli alberi genealogici delle famiglie nobili nella ricerca delle loro radici. Questa narrazione che utilizza i riscontri della genetica, definita la ‘mistica del DNA’, racconta molto di più della grande diversità biologica dei vitigni ed evidenzia la necessità di un approccio culturale molto più vasto per comprenderli. Le sorprese non sono mancate. Vicino a genitori insospettabili ed a padri non facili da individuare, quella che appare sempre più evidente è una rete di parentele molto articolata dove alcuni vitigni, pochi, non più di dieci, rappresentano i capostipiti attorno ai quali si è formata la gran parte dei vitigni europei. Per ricostruire la storia dei nostri vitigni e avere riscontri fenetici e chimici da elaborare, senza i quali ogni tentativo di ricostruzione del pedigree sarebbe impossibile, occorre che gli ipotetici genitori e antenati, anche se quasi scomparsi, siano raccolti per essere analizzati, in collezioni di germoplasma, la cui gestione è spesso disattesa dalle istituzioni per i costi da sostenere. Una delle maggiori difficoltà che si incontrano in queste ricerche è rappresentata dal cambiamento avvenuto nel tempo nelle denominazioni dei vitigni.
Dai nomi originali, greci o latini, per una sorta di vernacolizzazione, conseguente alla vulgata medioevale ed ai prestiti linguistici successivi, i nomi sono via via cambiati e spesso all’interno di un nome si sono nascosti vitigni simili per caratteristiche morfologiche o per le utilizzazioni enologiche, in una sorta di famiglia varietale. I termini ‘coltura’, inteso nel senso di coltivazione e ‘cultura’ inteso nel complesso di cognizioni, tradizioni, usi, tratti linguistici, hanno la stessa etimologia (derivano entrambi dal latino colere, coltivare) e solo fenomeni apofonici li distinguono nella nostra lingua fin dall’epoca romana, mentre in altre lingue, per esempio in inglese, questa distinzione non è presente. Per questo i contadini del passato sono stati definiti da alcuni studiosi, artisti creatori.
La loro opera infatti è paragonabile a quella dell’artista che manipola i suoi materiali per produrre un’opera d’arte: la loro destrezza lessicale e la grande capacità di invenzione dei nomi riescono in estrema sintesi a dare di un vitigno la sua caratteristica peculiare. L’analisi semantica fornisce indizi interessanti. Grazie agli sviluppi della paleoantropologia, della linguistica e della etologia cognitiva, comprendiamo sempre meglio gli intrecci tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale che ci fanno distinguere il significato delle parole ed i correlati biologici che sottendono.
Il dilemma dell’origine delle varietà coltivate di vite è un argomento che da molto tempo cerca una risposta. A tal proposito i ricercatori hanno agito, in tempi diversi, cercando la risposta ai loro interrogativi nei miti e nelle fonti letterarie. Da un punto di vista semantico la formazione dei nomi dei vitigni è un fenomeno abbastanza recente ed, anche se ha avuto negli scritti dei georgici prima greci e poi latini, Plinio in particolare, la base dei criteri della formazione del materiale lessicale si è sviluppata solo successivamente, soprattutto a partire dal XII-XIII secolo da numerosi settori della vita quotidiana e dall’ambiente agricolo dove si praticava la coltivazione della vite.
I primi documenti italiani che riportano denominazioni di vini più che di vitigni sono gli statuti comunali ed i tariffari daziari in uso nel tardo medioevo e si riferiscono di norma ai vini di lusso come le Malvasie, i Moscati, le Vernacce, i Trebbiani, le Schiave. Solo dopo il ‘500 le attestazioni varietali si fanno più frequenti e precise, ma è dal 1800 con gli sviluppi dell’ampelografia che i vitigni assumono una precisa dignità biologica ed identificativa.
La frase nomen omen è una locuzione latina che, tradotta letteralmente, significa ‘il nome, un destino’, ‘il destino nel nome’. Se la fisiognomica ha cercato di derivare i nomi dai tratti fisici delle persone, avviene così anche per i vitigni.
Per il nome di vino (vite), un’altra parola vagabonda, le cui origini sono ancora più lontane come dimostra il miceneo wo-no, il greco oinos, il latino vinum. Anche in ambiti culturali diversi l’albanese vene, l’armeno gini, l’ebraico yayin, l’arabo wayn confermano la stessa radice semantica. Si possono individuare alcuni criteri ispiratori utilizzati nella denominazione dei vitigni: denominazioni legate alle caratteristiche cromatiche dell’uva, denominazioni legate a caratteristiche sensoriali dell’uva o del vino, denominazioni legate ad alcune caratteristiche morfologiche o produttive del vitigno, denominazioni originate da toponimi derivanti dai luoghi di coltivazione. Sono tra le denominazioni più frequenti, anche perché derivate dalla cultura georgica.
Come i romani che designavano i vini con le località di provenienza, in epoca medievale anche i vitigni venivano chiamati con il luogo di origine del vino.
La biodiversità viticola non ha solo un valore biologico in quanto fase di un processo evolutivo naturale, sebbene guidato dall’uomo, ma è anche una risorsa economica per la creazione di nuove varietà di vite o per conoscere l’origine di molte varietà attualmente in coltivazione e perché suscita l’interesse del consumatore, e molte attività economiche fanno leva su tale richiamo. Le conseguenze più gravi della perdita di biodiversità viticola potrebbero manifestarsi in futuro con il cambiamento climatico in atto e con un progressivo riscaldamento della Terra, accompagnato dalla riduzione delle risorse idriche. Infatti, i genotipi in erosione potrebbero rivelarsi utili per tutto il continente europeo, in quanto solo le regioni mediterranee possono vantare un assortimento varietale atto a tollerare condizioni climatiche così estreme.
Questi vitigni posseggono infatti tratti di DNA con i geni necessari nei programmi di miglioramento genetico per conferire tolleranza alle alte temperature durante la maturazione, con le quali le viticolture di molte zone europee dovranno fare i conti nei prossimi anni. Ma il lavoro di conservazione e valorizzazione deve necessariamente riguardare anche il patrimonio culturale e umano che le ha create. Ridurre le vecchie varietà locali a semplici curiosità botaniche, togliendole dal loro contesto storico, è alquanto riduttivo, ingannevole e anche offensivo per le popolazioni che per secoli le hanno coltivate e tramandate. Il viticoltore da sempre ha coltivato e utilizzato vitigni che meglio rispondevano alle sue necessità e del piccolo commercio di prossimità. Tale ‘binomio’ è evoluto nel tempo unitamente all’evoluzione biologica, ambientale e culturale.
Conservare la biodiversità non significa quindi mantenere le varietà di vite in una collezione ex situ, dove raccogliere come in un museo i genotipi a rischio di scomparsa ma, per le profonde connessioni tra vitigno antico e cultura del luogo che lo ha selezionato e coltivato fino ad ora, queste varietà devono ritornare ad essere le protagoniste dello sviluppo agricolo ed economico di quelle popolazioni. Infatti, la museifìcazione, che è il grande pericolo nei progetti di valorizzazione dei vitigni autoctoni, è la controparte inversa all’omologazione e diviene a questa simile se manca il sentimento della perdita che provoca una tensione tra i viticoltori protagonisti del recupero delle vecchie varietà e sancisce la necessità di un tradimento del passato che deve essere conosciuto, altrimenti rischia di essere inventato (le ‘invenzioni della memoria’) perdendo autenticità. La diversità si conserva perché la popolazione agricola utilizza, gestisce, convive con il vitigno di cui è depositaria. Nell’azione di valorizzazione di questi vitigni, si presuppone un’azione collettiva di una amministrazione comunale o di un gruppo di viticoltori, nell’interpretazione dei valori di ciò che si vuole trasmettere”.
Per gentile concessione dell’Associazione G.R.A.S.P.O. (Gruppo di Ricerca Ampelografica per la Salvaguardia e la Preservazione dell’Originalità e biodiversità viticola) iniziamo a pubblicare una serie di articoli tratti dal volume 100 CUSTODI PER 100 VITIGNI, LA BIODIVERSITÀ VITICOLA IN ITALIA a cura di Aldo Lorenzoni; testi di Aldo Lorenzoni, Luigino Bertolazzi, Giuseppe Carcereri De Prati, Gianmarco Guarise, Ivano Asperti, Giacomo Eccheli, Elia Quarzago, Marta De Toni, Theresa Balaara.