Enrico Sgorbati di Torre Fornello: “La nostra azienda è ubicata sul confine con Lombardia, Piemonte e Liguria, in Val Tidone, una delle quattro vallate che contraddistinguono le rinomate colline di Piacenza, e precisamente all’estremo occidentale dell’Emilia Romagna”.
Da un documento del 1028 si evince che Diacono Gerardo, del Clero di San Martino, proprietario dei terreni di Fornello, ancora senza insediamenti rurali, lascia gli stessi in eredità ad una nobildonna piacentina.
Sono del 1200 i primi insediamenti rurali: viene costruito il forno (“fornello”) dove venivano cotti i sassi di calce che arrivavano dalla vicina località detta Calcinara, dove ora si estendono parte dei vigneti. Qui venivano cotti anche i mattoni provenienti dalla vicinissima frazione di Creta. Nei pressi del Fornello, proprietà dei Sanseverino, Principi di Napoli, viene eretta nel 1400 la torre principale a difesa del feudo: da qui Torre Fornello, arrivato fino ad oggi.
È il 1400 quando il feudo viene acquistato dai Conti Zanardi Landi, condottieri di Sarmato e Gran Duca di Toscana. Viene edificata la villa padronale e le relative pertinenze: scuderie, fienile, chiesa, vinsantaia, stalla. Viene data vita anche ad un giardino botanico, del tutto inusuale per queste zone e di rara bellezza.
La costruzione diventa così un’importante residenza padronale di campagna, abitata dalla nobile famiglia generalmente nei mesi di agosto, settembre e ottobre, periodo della vendemmia.
Nel 1862 Donna Luigia Scotti Douglas, vedova del Conte Zanardi Landi Granduca di Toscana, lascia la proprietà alla figlia. Nel testamento si raccomanda di non frazionare mai la proprietà, che arriva intatta ai giorni nostri.
Nel 1982 l’azienda diventa di proprietà, nella sua interezza, della Famiglia Sgorbati, da sempre viticoltori nei colli circostanti
Enrico Sgorbati riprende, nel 1992, l’attività del nonno vignaiolo coltivando i vigneti aziendali e vendendo le uve a terzi.
È il 1998 quando Enrico Sgorbati inizia la nuova era di Torre Fornello, ristrutturando l’antica azienda di famiglia nel rispetto dell’antico dando prestigio e fascino al borgo con soluzioni contemporanee. Enrico continua la coltivazione specializzata dei vigneti, che da generazioni viene praticata, ponendosi come fine la produzione di vini di altissima qualità dando risalto al territorio di origine unendo passione e tenacia, tradizione e innovazione, arte e cultura.
Di seguito la sintesi delle schede tecniche dei tre vini assaggiati.
OLUBRA – MARSANNE – SPUMANTE DI QUALITÀ Tipologia: Brut, metodo classico millesimato Vitigno: 90% Marsanne, 10% Malvasia di Candia aromatica Caratteri organolettici: Colore giallo paglierino con riflessi verdognoli. Profumo di frutta fresca e fiori bianchi, note di mare, linfatiche, complesso. Sapore morbido, sapido e con acidità sostenuta, variegato e intrigante. Degustato con gli antipasti prosciutto stagionato, coppa piacentina, parmigiano 30 mesi, tigella con squacquerone (formaggio spalmabile) e mortadella, crescente (focaccia) con prosciutto e formaggio.
DONNA LUIGIA MALVASIA D.O.C. COLLI PIACENTINI “Donna Luigia” Scotti Douglas, vissuta nella prima metà del 1800, proprietaria dell’azienda e discendente di una nobile famiglia scozzese delle Lowlands, creativa produttrice, è stata una donna dalla forte personalità alla quale abbiamo voluto dedicare questo vino. Le uve vengono raccolte da tre vigneti (Solana, Lucenti, Vecchio Pozzo) differenti non per varietà ma per esposizione, pendenza e anni del vigneto. Le uve dei tre vigneti vengono lavorate separatamente e solo dopo 9 mesi unite. Tipologia: Fermo, secco, affinato il 20% in barriques per 6/9 mesi – 80% in acciaio, anche da lungo invecchiamento Vitigno: 100% Malvasia di Candia aromatica Anno di impianto: 1990 / 1931 Caratteri organolettici: Colore giallo paglierino carico con riflessi ambrati. Profumo intenso e fresco in cui il caratteristico profumo della Malvasia si presenta con note di menta, anice stellato, frutto della passione e litchi. Sapore secco, fresco, aromatico, piacevolmente complesso, lungo e persistente. Un vino rotondo e di struttura, anche da invecchiamento. Degustato con le tagliatelle al ragù misto carne di manzo, carne di maiale e mortadella.
ROSSI LATITUDO 45 BONARDA D.O.C. COLLI PIACENTINI La latitudine 45° è il parallelo che passa sul terreno in cui viene coltivata e raccolta quest’ uva straordinaria, utilizzata per produrre un vino unico e complesso che si presta anche a un lungo affinamento. Tipologia: Fermo affinato il 100% in tonneau da 500 lt. per 12-18 mesi, da lungo invecchiamento Vitigno: 95% Bonarda (Croatina), 5% altre uve a bacca rossa Anno di impianto: Caratteri organolettici: Colore rosso rubino granata molto carico con profumi spiccati di fresia e violetta, visciola e trito d’erba, pepe bianco, cacao e cuoio dal sapore vibrante, fresco di struttura, con note fruttate e linfatiche. Degustato con lo Stracotto di Cavallo che ha cucinato oltre sette ore…
Approfondimento storia delle pietanze assaggiate a cura di Alessandra Spina, ricercatrice di Sapori & Saperi che ringraziamo per il suo contributo gratuito.
Tagliatelle
La nascita delle tagliatelle si deve ad Augusto Majani, umorista e comico originario di un paesino vicino a Bologna, che nel 1931 scrisse una storiella per far sì che il capoluogo emiliano potesse accaparrarsi il titolo di culla delle tagliatelle. Alla fine del 13° secolo il signore di Bologna, Giovanni II di Bentivoglio, chiese al proprio cuoco personale Mastro Zefirano di preparare una ricetta originale per la donna di corte Lucrezia Borgia che si trovava a Bologna di passaggio durante il suo viaggio per convolare a nozze con Alfonso D’Este, duca di Ferrara. Il cuoco, volendo celebrare la bellezza della signora appartenente alla famiglia Borgia, si ispirò ai suoi lunghi e raggianti capelli biondi e decise di tagliare a strisce la pasta che solitamente si usava per fare le lasagne, dando così forma alle tagliatelle così come le conosciamo oggi. Da ciò si può comprendere come il nome “tagliatelle” derivi proprio dall’azione di tagliare la sfoglia per ricavare questo formato di pasta.
Altra leggenda dal gastronomo e scrittore Pellegrino Artusi, nato a Forlimpopoli. Nel suo celebre libro ‘’La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene”, che risale al 1891, l’Artusi delinea i tratti caratteristici delle tagliatelle, citando un detto bolognese che testimonia, ancora una volta, il ruolo della città nella nascita di questo tipo di pasta: “Conti corti e tagliatelle lunghe, dicono i Bolognesi”. la “tagliatella perfetta” e le misure per definirla tale. Ci riferiamo proprio a un pezzettino di tagliatella, in uova e farina, larga circa 7 millimetri, ossia la 12.270esima parte dell’altezza della Torre degli Asinelli (vero e proprio simbolo della città) che da cotta assume una grandezza pari a 8 millimetri. Per quel che riguarda lo spessore, invece, non ci sono indicazioni precise anche se, generalmente, esso deve essere uguale a 6-8 decimi di millimetro.
Dunque, chiunque volesse cimentarsi nella realizzazione delle tagliatelle e vestire i panni di una sfoglina, cioè le signore dell’Emilia Romagna che si dedicano alla creazione della pasta fresca, dovrà seguire queste indicazioni se vuole dare forma a una tagliatella fatta ad arte.
Ragù
L’origine della parola “ragù” è un francesismo (derivato dal termine ragout), con cui un tempo si indicavano tutte quelle preparazioni in cui la carne (ma all’occasione anche il pesce o le verdure) veniva ridotta in pezzettini poi cotti in umido a fuoco basso per lungo tempo. Non è chiaro quando il termine iniziò ad essere impiegato in Italia, ma il “ragù” era già presente nelle tavole degli aristocratici del Rinascimento, inizialmente come piatto a sé (così come è tuttora nella cucina francese) e solo successivamente utilizzato per condire la pasta.
La prima fonte scritta che riporta una ricetta del ragù servito come condimento per la pasta è un manoscritto di fine Settecento, redatto da Alberto Alvisi, cuoco del Cardinal Barnaba Chiaramonti vescovo di Imola.
La ricetta, inizialmente consistente di un soffritto di carni bovine con “odori” (sedano, carota e cipolla), lardo e burro, ha subito variazioni nel corso del tempo, la principale delle quali fu l’introduzione nell’Ottocento del pomodoro (o, più spesso, del concentrato
Coppa Piacentina
La sua produzione avviene nell’intero territorio piacentino, ma la stagionatura, eseguita sempre in loco, deve compiersi in località che non superino i 900 metri di altitudine. La carne proviene da allevamenti lombardi ed emiliani. Si ottiene dal muscolo cervicale del suino, che viene tagliato all’altezza della quarta costola, e non può avere peso inferiore ai 2,5 kg. la carne viene massaggiata, spremuta e rifilata, quindi si procede alla salatura. Questa avviene con sale, zucchero, pepe spezzettato e numerose spezie, tra cui chiodi di garofano, semi di alloro, cannella.
Pancetta Piacentina
Gusto pieno ma dolce e poco pronunciato, profumi delicati e sottili sono le caratteristiche organolettiche che la contraddistinguono. La sua produzione avviene nell’intero territorio piacentino, ma la stagionatura, eseguita sempre in loco, deve compiersi in località che non superino i 900 metri di altitudine. La carne proviene da allevamenti lombardi ed emiliani, gli stessi che vengono impiegati dai produttori del prosciutto di Parma. La parte del maiale che viene impiegata per ottenerla è il grasso che parte dalla zona retrosternale fino ad arrivare a quella inguinale. Delle mammelle si impiega solamente la parte laterale. Dopo un’opportuna rifilatura si procede alla salatura, che viene fatta con sale, pepe, chiodi di garofano, zucchero.
Salame Piacentino
Il prodotto finito si presenta di forma cilindrica, con un peso cha va da 400 g a 1Kg. Al taglio la fetta ha un aspetto compatto. Nella parte magra, di colore rosso brillante, sono distinguibili e ben distribuiti i lardelli di grasso di un colore bianco rosato, tipici di questo salame a grana grossa. Il profumo è caratterizzato da un delicato aroma di carne stagionata, accompagnato da un leggero sentore di spezie. Di sapore delicato e quasi dolce, l’intensità della componente aromatica olfattiva aumenta a seconda della durata dell’affinamento. Si procede dapprima alla macinatura delle parti magre e grasse del maiale, fatta in maniera piuttosto grossolana, e quindi il tutto viene condito con sale, pepe, aglio, vino e zucchero.
Le origini della Crescente
Una focaccia che fa parte della tradizione storica dei lievitati salati di Bologna. La parola ha la stessa radice del verbo crescere: nel dialetto bolognese, carsent significa “che cresce”. Dopo una lunga notte di lavoro, a metà mattina, i fornai preparavano una focaccia da consumare come colazione-pasto e lo facevano utilizzando gli avanzi della pasta lievitata di pane (crescente) arricchita dai ranzétt, cioè pezzi di prosciutto un pochino rancidi.
La crescente nasce come ricetta del riciclo, per non sprecare nulla.
La focaccia cuoceva nel forno dentro grandi ruole (teglie) di ferro da dove usciva profumata e invitante. Se già nel 1891 Artusi cita la crescente, significa che si trattava di una consuetudine antica e di una prelibatezza già nota anche se è solo nel secondo dopoguerra, a metà Novecento, che la focaccia diventa un prodotto da forno destinato alla vendita. Da quel momento il prosciutto di scarto e il lardo rancido scompaiono, sostituiti da carne di prima qualità.
Lo squacquerone
Lo squacquerone o squacquarone è un formaggio italiano di tipo fresco e cremoso, originario della Romagna. Si tratta di un formaggio vaccino, a latte intero, a brevissima maturazione, simile alla crescenza, sebbene la pasta (di colore bianco) sia meno consistente per l’elevato tenore di acqua. È di latte pastorizzato, a pasta cruda, estremamente molle, cremoso e spalmabile. Il colore è bianco avorio e le note gustative sono tipicamente lattiche, con sapore dolce-acido. È uno dei principali prodotti con cui viene farcita la piadina romagnola. Oltre allo squacquerone comune esiste lo Squacquerone di Romagna DOP, prodotto solo nella zona designata e nel rispetto del relativo disciplinare. Invece, lo squacquerone, essendo non a denominazione di origine ovvero è un formaggio generico, può essere realizzato ovunque.
Il cavallo come cibo
L’imperatore romano d’Oriente Zenone, temendo che l’interesse del re d’Italia Odoacre potesse travalicare la penisola italica e altrettanto preoccupato dell’espandersi nei Balcani degli Ostrogoti di Teodorico, pensò di arrestare l’avanzata di entrambi mettendoli l’uno contro l’altro. Nel 488 fomentò così la calata in Italia di quest’ultimo, che tenne sotto scacco per alcuni anni il rivale. Il 30 settembre 489 fu combattuta tra i due eserciti, nei pressi di Verona, una cruenta battaglia che vide soccombere Odoacre. Sul campo rimasero migliaia di vittime e, tra queste, numerosi cavalli. La popolazione, stremata da mesi di assedi, ne utilizzò la carne facendola macerare con cipolla, spezie e vino. La preparazione superò indenne le proibizioni delle regole ecclesiastiche esistenti durante il periodo barbarico, quando l’equino era considerato un simbolo del sacro. In quei secoli, e fino a tempi recenti, il consumo di carne di cavallo è rimasto collegato a situazioni di emergenza, da destinarsi di conseguenza soprattutto alle classi sociali meno abbienti.
Ma anche che circa 2000 anni fa chi percorreva la via Emilia per andare verso Nord o Sud, si fermava alla Posta Romana, un’azienda dove si ci poteva fermare per: riposare, mangiare e ferrare i cavalli. In posizione strategica fra Parma e Piacenza, erano di casa i capi d’armata delle legioni romane che erano ospitati per poi proseguire il viaggio ai confini dell’Impero Romano per cui spesso i cavalli che venivano abbattuti per vari motivi venivano cucinati per lo stracotto.
All’inizio del secolo scorso, anche in Italia questa carne era considerata priva di valore, dura e poco commestibile, ma va tenuto presente che quei pochi esemplari mandati al macello erano decrepiti e affaticati dagli sforzi di un’intera esistenza. Furono le guerre mondiali a far riscoprire agli Italiani il gusto per gli equini: la povertà da un lato e la diffusione dei muli dell’esercito dall’altro rappresentarono la combinazione ideale perché ciò accadesse. Negli anni successivi, quando gli equini persero del tutto la loro utilità per il diffondersi della meccanizzazione agricola, ci si trovò di fronte ad una grande offerta di carne di cavallo sul mercato. Negli ultimi anni, a fronte degli impasse che hanno riguardato bovini e avicoli, la carne di cavallo, anche se non è perfettamente sostituibile a queste ultime, ha riscontrato un altro successo.
Generali caratteristiche della carne di cavallo sono il colore rosso scuro, dovuto alla quantità di mioglobina, e la relativa dolcezza, per la presenza di zuccheri muscolari come glicogeno e glucosio.