Prof. Luca Siniscalco: che cos’è l’esoterismo?

Professore di Estetica presso l’Università degli Studi di Milano, Docente di Filosofia contemporanea, Storia e cultura dell’esoterismo

Un’intervista con Luca Siniscalco, Professore di Estetica presso l’Università degli Studi di Milano, Docente di Filosofia contemporanea, Storia e cultura dell’esoterismo presso Unitreedu. Curatore di saggi su Ernst Niekisch, Ernst Jünger e Julius Evola, collabora con diverse riviste e case editrici.

S.B.: Che cos’è l’esoterismo?
L.S.: Per esoterismo si intende, genericamente, una dottrina segreta, occulta, riservata a un gruppo iniziatico, contrapposta al sapere “essoterico”, quello visibile, concettuale, rivolto ai più. L’esoterismo si struttura in un insegnamento di matrice spirituale, interiore, volto alla crescita del sé e alla sua trasfigurazione, in senso verticale e anagogico.

Seguendo il magistero di Antoin Faivre, il primo studioso ad essersi specializzato, in ambito accademico, nell’esoterismo occidentale (in quanto fondatore e titolare della cattedra di “Storia delle correnti esoteriche nell’Europa moderna e contemporanea” all’École pratique des hautes études di Parigi), possiamo riconoscere una tradizione come “esoterica” nella misura in cui questa soddisfi quattro princìpi essenziali, che ne fungono, per così dire, da “minimo comune denominatore”: l’adesione alla dottrina analogica della corrispondenza fra macrocosmo e microcosmo; la percezione – non necessariamente panteista – della natura come una forza viva, animata (una “energia” più che una “cosa” – natura naturans anziché natura naturata potremmo dire, con un linguaggio filosofico); la contemplazione di alcune figure di mediazione fra il piano trascendente e quello immanente, livelli cosmici intermedi tra la materia e lo spirito; la tensione esistenziale verso la trasmutazione interiore.

Quest’ultimo punto ci permette di pensare all’esoterismo più come una ortoprassi che come una ortodossia: esistono molti esoterismi, talora in contrapposizione alle religioni ufficiali, in altri casi, invece, in simbiotica sintonia con esse (in quanto lato occulto, interiore, della “chiesa” visibile, esteriore, cui si riferiscono), equipaggiati di dottrine, cosmogonie, filosofie distinte, ma tutte queste forme perseguono la ricerca “scientifica” (in senso epistemico tradizionale, non certamente moderno) della congiunzione concreta, esperienziale, effettiva con il divino (metaforizzata nei modi più svariati: theosis, indiamento, coincidentia oppositorum, nozze chimiche, rebis, ecc.). L’esoterismo – che io studio essenzialmente nella sua tradizione occidentale, ma che ha profondi legami con l’Oriente – si pone così come un sapere pragmatico, o, di converso, come una prassi sapienziale, volta a spingere il ricercatore alla queste e alla costruzione di un percorso individuale, adatto alla sua «equazione personale» (qui cito Evola), radicata nella Tradizione ma aperta alla Storia.

S.B.: Lo studioso Elemire Zolla parla di Verità (esperienze metafisiche) esposte in evidenza: il suo parere?
L.S.: Nel binomio che proponi è riposto il cuore della sapienza metafisica arcaica, coerente con la definizione di esoterismo che ho prima tentato di elaborare. Troviamo la traccia pragmatico-esistenziale della Sapienza (si parla di “esperienze”, non di “concetti”, “speculazioni”, “ragioni”) e il carattere chiaroscurale della Verità, che l’esoterismo, in quanto occultismo, permette di esporre in evidenza, come conoscenza luminosa e auto-evidente. Sembra un paradosso – e lo è. Com’è possibile immaginare infatti un sapere nascosto, umbratile, misterioso, che viene “esposto in evidenza”? Siamo al cuore della contraddittorietà logica del sapere metafisico, che sposta “a forza” l’organo della conoscenza dal piano logico-dialettico, dominato dal principio aristotelico di non contraddizione, al piano sovrarazionale, intuitivo, simbolico. Qui, tutto è Uno, e la verità dell’Uno, come insegna la cultura greca, si dà come aletheia, ossia come “non-nascondimento”. Ma questo non-nascondimento, proprio come la natura naturans, non è una “cosa”, un “dato”, bensì un processo dinamico, fatto di polarità, metamorfosi, energheia. Il “non-nascondimento” è possibile solo se si dà, simultaneamente al “nascondimento”. La verità si offre come apparizione e scomparsa, presenza e assenza, luce e tenebra. Martin Heidegger, in ambito filosofico, ha scritto sul tema splendide pagine che riecheggiano di una tradizione prefilosofica, davvero sapienziale, quella dei presocratici, i “filosofi sovrumani” su cui ha molto meditato Giorgio Colli. La verità, in senso autentico, non è la “commisurazione”, “l’essere conforme” a qualcos’altro, bensì l’apertura radiosa ed estatica dell’Essere dell’ente. L’aletheia, insomma, come svelatezza in cui la velatezza dell’ente viene a essere trasfigurata, non è la proprietà di un’asserzione o di una proposizione, e neppure un cosiddetto valore, non si dà come “concetto”, sapere speculativo, bensì come evento: «L’Essere – scrive Heidegger – è (west) essenzialmente come evento (Ereignis)». È l’accadere dell’evento della verità, a cui conduce solo quella via sapienziale «che corre al di fuori dei sentieri abituali degli uomini» (Parmenide, fr. 1, 27).
È con questo tipo di verità che l’esoterismo si confronta.

S.B.: Un autore fra tutti, Julius Evola. Ci può dare qualche accenno sulla sua personalità?
L.S.: Non è semplice parlare della personalità di un autore che ha sistematicamente decretato l’irrilevanza della propria – come di qualsiasi altra – personalità nella trasmissione di una conoscenza, tanto da rivendicare la centralità della nozione di “impersonalità attiva” come discrimine fra un pensiero metafisico veritativo e una estroflessione narcisistica e patologica dell’io ipertrofico di un soggetto “retorico”.
Posso però fornire tuttavia alcune indicazioni di massima, utili in particolare in sede introduttiva per approcciare l’autore tradizionalista. In primo luogo, ci viene in soccorso la celebre affermazione, proposta dallo stesso Evola nella sua autobiografia intellettuale Il cammino del cinabro, in base a cui il nostro definisce la propria «equazione personale», ossia la propria identità profonda, come duplice: da un lato un forte «impulso alla trascendenza», connesso a un «certo distacco dall’umano»; dall’altro lato una disposizione da kshatriya, ossida da “guerriero”, «un tipo umano incline all’azione e all’affermazione». Questi due livelli, apparentemente antitetici, suscitarono in Evola la volontà di una sublimazione capace di riunificarli, senza perderne le peculiarità, su di un piano più alto. «Può darsi – conclude Evola ne Il cammino del cinabro – che il contemperare le due tendenze sia stato il compito esistenziale fondamentale di tutta la mia vita. Assolverlo, ed evitare, anche, un tracollo, mi è stato possibile nel punto in cui giunsi ad assumere l’essenza dell’uno e dell’altro impulso su di un piano superiore. Nel campo delle idee, la loro sintesi sta alla base della formulazione precipua da me data, nell’ultimo periodo della mia attività, al “tradizionalismo”, in opposto a quella, più intellettualistica e orientaleggiante, della corrente facente capo a René Guénon».

Pure la vastità di interessi teorici di Evola, che si è occupato di arte e filosofia, esoterismo e metapolitica, storia delle religioni e simbolismo, sessuologia e alpinismo – per citare solo alcuni dei suoi principali nuclei di ricerca – testimoniano una personalità complessa, proteiforme eppure integrale, autocentrata ma capace di estroflessione, di confronto/scontro con l’alterità. Questo tipo di personalità trova conferma nella memoria del Presidente della Fondazione Julius Evola, Gianfranco de Turris, che il nostro ha a lungo frequentato, il quale, in varie interviste, ricorda l’impressione “caratteriale” lasciatagli da Evola. Diversamente rispetto ad altri “testimoni” che ci parlano di Evola come di un severo e ascetico maestro spirituale, De Turris ricorda il filosofo romano come «una persona “normale”, senza eccentricità, bizzarrie, a parte il vezzo di prendere dal cassetto della scrivania il monocolo e inforcarlo alla presenza di signore e signorine; nessun atteggiamento di superiorità o da “maestro”, nessuna saccenteria». De Turris delinea così il proprio prezioso ricordo di Evola: «Una persona che parlava di tutto e di tutti, sino al limite del pettegolezzo e raccontando barzellette, come un vecchio amico, senza prosopopea e saccenteria o atteggiamenti da “guru”». E aggiunge: «Un amico, che “evoliano” non è, mi ha raccontato che andando a trovarlo insieme ad un devoto del suo pensiero, questi, entrato nella sua stanza, si prosternò al suolo e quindi assorbì in silenzio i precetti un po’ assurdi e fuori del tempo che Evola gli dettava! Non posso pensare che questo amico si sia inventato tutto. Viceversa, una volta ad altri che erano recati da lui con spirito troppo superficiale, alla fine li congedò, come ha ricordato Renato Del Ponte, regalando oro una copia di Tex, il fumetto western allora (e oggi) il più longevo e diffuso, come dire, secondo me: siete più adatti a questo genere di letture. A buon intenditor…». Come spiegare questa diversità di approccio, tenendo per affidabile le diverse testimonianze? Sempre De Turris ci propone una tesi ficcante: Evola avrebbe mostrato l’attitudine – raffinata sul piano psicologico – a riconoscere la sensibilità interiore del proprio vasto uditorio, un intuito “sottile” che lo portava a “dare a ciascuno il suo”. Così, conclude De Turris: «Ecco il motivo per cui appariva “diverso” o singolare a chi lo andava a trovare, magari soltanto per una volta. Si comportava come un maestro zen o sufi, un po’ come faceva anche Pio Filippani-Ronconi: diceva cose assurde, usava espressioni paradossali, provocatorie, estreme, quasi, così provocando, voler sondare le reazioni di chi aveva davanti, come a volerlo saggiare, sondare, osservare le reazioni esteriori, ma anche interiori. I devoti, gli “evolomani” come lui stesso li aveva definiti, prendevano magari alla lettera quanto diceva e se ne facevano una impressione sbagliata. Lo stesso vale per chi andava da lui con atteggiamento troppo superficiale, o per i facinorosi, che pensavano di essere “uomini di azione” (…). Non era, dunque, una personalità multiforme, un carattere variabile, ma il suo essere così aveva un senso perché faceva da riscontro alla personalità e all’animo dei suoi interlocutori, seri o meno seri, preparati o meno preparati, colti o meno colti, ingenui o meno, amici o nemici. Il suo atteggiamento e linguaggio servivano per capire chi fossero quei tanti che volevano vederlo, incontrarlo, parlargli, magari anche per prenderli sottilmente in giro per le loro esagerazioni, pur se non se rendevano conto. Da qui, ma a lui ovviamente non importava, la nascita di alcune leggende metropolitane nei suoi confronti che non sempre gli hanno giovato».

Insomma, un viandante dello Spirito capace di sarcasmo e autoironia. Come insegna un maestro zen: «Se incontri il Buddha sul tuo cammino uccidilo!». Il magistero di Evola proponeva l’“assassinio” del proprio stesso io, frantumandone la pluralità e moltiplicandone la performatività, anche a vantaggio degli interlocutori. Per approfondire l’aspetto filosofico clicca su questo link

 

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