Petra si trova in Giordania a circa 250 km a sud della capitale Amman, il sito ha circa 2000 anni situato in un bacino tra le montagne a est del Wadi Araba si estende dal Mar Morto fino al Golfo di Aqaba del Mar Rosso.
In semitico il suo nome era Reqem o Raqmu ovvero «la Variopinta», come risulta anche nei manoscritti di Qumran. Nacque come una città degli Edomiti divenendo poi capitale dei Nabatei, un popolo evoluto di guerrieri e commercianti, la cui estesa rete mercantile metteva in comunicazione il sud della Penisola araba con il Mediterraneo.
Verso l’VIII secolo Petra fu abbandonata in seguito alla decadenza dei commerci e a catastrofi naturali e, anche se le antiche cavità ospitano famiglie beduine fino ad anni recenti, fu dimenticata fino all’epoca moderna. Il complesso archeologico fu rivelato al mondo occidentale dall’orientalista svizzero Burckhardt nel 1812.
A febbraio Ibrahim Ibn Abdallah ha lasciato Aleppo e ha raggiunto Damasco: è ora di andare a Shobak e da lì ad Aqaba, passando per l’altopiano dell’ Hauran, e poi, finalmente, in Egitto.
Ma la gente di Karak gli ha parlato di una straordinaria città morta scolpita nella pietra nel Wadi Mousa, un tesoro nascosto di cui gli infedeli non sanno nulla. Gli viene in mente che sarebbe una buona idea andare a sacrificare un capretto sulla tomba di Aronne, che si trova dall’altra parte di quelle meravigliose rovine del passato, in cima al monte che prende il nome proprio dal fratello di Mosè.
Per arrivare al Jabal Hārūn ha senz’altro bisogno di una guida: ne troverà una molto facilmente, perché le sue intenzioni sono buone, e il popolo di quelle terre è diffidente, ma molto religioso.
Il 22 agosto, così, Ibrahim attraversa la valle e si imbatte in uno dei più grandi siti archeologici che siano dati di vedere all’uomo moderno. Tiene nascosto il suo taccuino di viaggio sotto il turbante, perché perderlo sarebbe molto peggio che essere derubato dei pochi denari che porta con sé. E, soprattutto, se la guida musulmana ingaggiata con uno stratagemma blasfemo lo vedesse scrivere sul suo journal book, capirebbe subito che egli non è un pellegrino, ma un europeo curioso venuto a carpire i segreti di una delle civiltà più antiche della Storia.
Sì, perché Ibrahim Ibn Abdallah altri non è che Johann Ludwig Burckardt, talentuoso orientalista svizzero, nato nella seconda metà del Settecento nel mito un po’ illuminista e un po’ romantico del Grand Tour: un gran pezzo di infedele, insomma. E infatti, per buona cura della sua salute, si guarda dal prendere appunti, sapendo bene di trovarsi «without protection in the midst of a desert where no traveller had ever before been seen»: annoterà tutto domani.
Fu così, soltanto dopo il viaggio di Burckardt del 1812, e più ancora dopo la pubblicazione dei suoi diari nel 1822, che gli occidentali riscoprono Petra, quella che in tempi recenti è stata definita come una delle sette meraviglie del mondo moderno (definizione che riecheggia le sette meraviglie conosciute nell’antichità).
Certo, oggi Burckardt, per la Giordania, paese che ospita il sito archeologico visitato da centinaia di migliaia di turisti, è qualcosa di simile ad un eroe nazionale, che ha contribuito in modo consistente allo sviluppo economico di quell’area.
Ma quei luoghi, sui quali è stata scritta la Storia degli uomini sin dalla notte dei tempi, hanno sempre goduto di una quasi misteriosa prosperità economica.
Sicuramente le prime enormi ricchezze furono accumulate dai mercanti beduini, che caricavano sulle loro carovane incenso e mirra dal lontano oriente o dal sud della penisola arabica, e lo vendevano ai Greci e ai Romani. Certo quegli uomini vollero costruire un’oasi nel deserto, come snodo di loro ricchi traffici e ristoro dei viaggiatori; ma la ricchezza di Petra nasconde ancora dei misteri.
Il turista di oggi percorre una lunga ed altissima gola aperta nella roccia, un canyon, già di per sé spettacolare, che al suo sbocco offre la vista di un gigantesco edificio scolpito nella roccia, chiamato Il Tesoro, senza che nessuno sappia con esattezza le origini di questo nome così promettente. Vi era forse nascosto un tesoro? O quell’edificio stesso è il tesoro? E poi, di cosa si tratta esattamente? Di un tempio o di una tomba come molte altre i visitatori ne troveranno lungo il tragitto?
Ma è facile comprendere come e perché la straordinaria architettura di quei luoghi si componga di elementi culturali così diversi: la risposta sta nelle traversate che i beduini compivano a bordo delle loro carovane, incontrando le città più importanti del mondo allora conosciuto, assimilando il gusto dei Greci e quello degli Egizi, abbeverandosi alla fonte di ogni sapienza.
Non si tratta soltanto di architettura: il fascino misterioso di Petra deriva anche dall’ingegneria, e più precisamente da una sofisticatissima ingegneria idraulica che consentiva di fare affluire nel sito, in una delle aree più aride del pianeta, una gran quantità di acqua: così tanta da farne sfoggio e sprecarla in una rete idrica che serviva non solo all’approvvigionamento, ma pure esibizione dell’incontrastato potere economico della città. L’insieme di queste reti idriche portava a Petra circa 40 milioni di litri d’acqua al giorno.
Ma se la più importante risorsa del deserto fu uno dei simboli della ricchezza di Petra, l’acqua fu forse anche la causa della sua rovina. E’ infatti possibile che sia stata un’inondazione causata dalla pioggia che l’avanzato sistema di dighe non fu in grado di contenere, a inondare le muraglie che racchiudono il Siq, e l’intera vallata. Forse in questo modo la Storia cancellò Petra dalla memoria degli occidentali, finché un furbo pellegrino di nome Ibrahim Ibn Abdallah, nome al quale fu aggiunto il titolo onorifico di sheick, non la restituì all’umanità intera.