Non c’è da stupirsi: la prima forma di teatro – dal greco theatròn, spettacolo – appartiene proprio ai riti propiziatori dei popoli primitivi; una rappresentazione a tutti gli effetti volta a rievocare o enfatizzare il contesto emotivo che la comunità vive in quel momento. In Grecia, dal rito propiziatorio all’esibizione drammatica eseguita da un coro, anche per motivi narrativi e non strettamente religiosi, il passo è breve. Ma è attorno al VI secolo a.C., in Attica, che un gruppo di artisti girovaghi fanno tappa in numerose città per narrare la guerra di Troia: la novità, oltre all’utilizzo del carro come palcoscenico per assicurare al pubblico una corretta visione, è proprio la narrazione in prima persona, svolta da una persona “che esegue l’azione” mentre il resto del gruppo arricchisce la scena con suggestive danze e musiche. Così nasce l’attore e l’uso della maschera, creata per caratterizzare il personaggio, espandere il suono della voce e renderne visibili i lineamenti anche a grande distanza. La leggenda colloca la nascita della rappresentazione drammatica al Teatro di Atene nel 23 novembre 530 a.C., durante le Dionisie, e le vesti dell’attore proprio a Tespi. Per questa ragione gli attori, all’epoca, sono chiamati anche tespiani; e uno dei suoi allievi, Frinico, prosegue il tema della guerra con La presa di Mileto, con cui abbandona lo spunto mitologico per abbracciare completamente quello storico. Come ogni processo esoterico, l’arte discende dalla religione per raggiungere il popolo e fondersi con esso in forme sempre meno sacerdotali, ma non per questo meno evocative di quest’antico culto.
È necessario Eschilo, immediatamente successivo a Frinico, per introdurre il secondo attore in scena e con I Persiani, opera del 472 a.C., la vera e propria Tragedia Greca. Purtroppo, delle opere precedenti non rimangono che pochi frammenti, complice un’accesa opposizione da parte del potere (come per ogni forma di esoterismo, d’altronde): secondo Erodoto, Frinico è costretto a subire un’ingente multa e la censura delle sue opere per “aver rievocato sventure cittadine” in seguito a una forte commozione manifestata dal pubblico. La tragedia prosegue con le opere di Sofocle ed Euripide: con quest’ultimo, la tragedia concede largo spazio al realismo dell’eroe e alla psicologia dei personaggi per la prima volta.
Su esempio di Tespi, Cratino sperimenta il modello della rappresentazione teatrale su ispirazione del komos, un corteo rituale di baldoria eseguito durante le manifestazioni religiose. In una delle sue opere, Pytine (Damigiana), lui interpreta se stesso in compagnia dell’amante, di nome Pytine, a scapito di sua moglie, che si chiama Commedia. La sottile e pungente autoironia per rappresentarsi come un alcolizzato segna tutte le rappresentazioni successive di questo nuovo genere, come dimostrato da Eupoli, Frinico – omonimo del tragediografo – e, più di tutti, Aristofane.