La coscienza morale di S. Paolo S. Agostino e Tommaso D’Aquino secondo padre Vittorio Rocca

Continua la disamina spirituale sulla coscienza: teoria e pratica della morale

Si prosegue con il progetto tra Don Vittorio Rocca e la sottoscritta attraverso il suo saggio che spazia in maniera molto naturale e attenta dalla teologia, filosofia, psicologia, sociologia mantenendo un fil rouge che è dettato da un’esigenza incontrovertibile di tutto ciò che viene dato per scontato in questo campo.

Susanna Basile: Che cos’è la coscienza morale?
Vittorio Rocca: La coscienza morale è il centro più intimo della persona umana, potremmo dire il “cuore” del nostro essere, ciò che costituisce la nostra stessa dignità. Ecco perché potremmo definirla la legge delle leggi: è infatti la coscienza che giudica la persona. Il concilio Vaticano II ha ribadito solennemente questo principio: «L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio nel suo cuore: obbedire ad essa è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato» (Gaudium et spes, n. 16).

E per poter giudicare è indispensabile che la coscienza entri in dialogo con tutti, credenti e non credenti; la coscienza non è una prerogativa esclusiva del credente, essa è bensì un dato costitutivo e distintivo della persona. Si tratta di instaurare una reciprocità di coscienze. Scopo della formazione morale non è ottenere individui sottomessi e obbedienti. Il traguardo dell’educazione morale è piuttosto giungere a formare persone libere e responsabili, capaci di dialogo e di reciprocità con altre persone libere e responsabili, che sanno autonomamente quando bisogna obbedire e quando invece è necessario disobbedire.

La coscienza, dunque, è il cuore della persona e nulla ad essa va preferito; va invece curata e coltivata con tutta l’attenzione possibile. Nella persona umana decisivo è il cuore, l’interiorità. È il luogo delle decisioni libere, degli affetti profondi che cambiano la vita e dei grandi orientamenti che danno senso alla storia. Tutta la vicenda umana si gioca nell’intimo dell’uomo.

S.B.: Quali sono le tre accezioni fondamentali?
V.R.: Le tre accezioni di fondo della coscienza possiamo così sintetizzarle:

capacità di analizzare eticamente la vita propria e il comportamento altrui, nel bene e nel male;

interiorità profonda dell’essere umano la quale è in grado di orientare le sue azioni morali;

prassi di vita ispirata dalla conoscenza esistenziale dell’esperienza divina e dalla logica relazionale.

S.B.: La coscienza, per San Paolo
V.R.: San Paolo si impegna a produrre una certa dottrina della coscienza e introduce nel lessico cristiano la parola greca syneidesis, tradotta poi in latino conscientia, destinata a divenire tecnica per designare la coscienza morale. Il termine era in uso nel pensiero greco. Basti pensare ad esempio, al mito delle Erinni, col quale viene proiettata all’esterno la realtà della cattiva coscienza; le Erinni erano donne con capelli scompigliati che inseguivano un colpevole fin quando la sua colpa non veniva espiata. La tragedia greca – e qui in Sicilia ne sappiamo qualcosa! – rappresenta la cattiva coscienza che accusa e tormenta l’uomo, non solo dall’esterno ma anche dall’interno. L’uso di conscientia come designazione generica dell’anima, o della mens, di quella facoltà interiore sola competente a conoscere la colpa o l’innocenza, è poi presente nei filosofi stoici. Rilievo particolare ha, ad esempio, in Seneca, che tra l’altro è il testimone maggiore della pratica dell’esame di coscienza quotidiano.

Per l’Apostolo la coscienza è patrimonio morale di ogni uomo, così come esprime il celebre passo di Rm 2,14s.: tutti gli uomini possiedono una capacità di giudizio morale ed una coscienza. Proprio per questo la coscienza è deputata ad essere l’istanza ultima della decisione morale quando ci si trova a lottare nei conflitti interiori (cf. Rom 14; 1Cor 8-10). La coscienza, per Paolo, anche quando giudica erroneamente, è la norma ultima e decisiva della moralità: «Tutto ciò che non proviene dalla convinzione è peccato» (Rom 14,23b).

S.B.: Salomone pregò Dio di concedergli “un cuore docile”. Che cosa significa questa espressione?
Salomone è presentato come modello di uomo saggio, che chiede come supremo dono da Dio il giusto discernimento per essere capace di governare bene il suo popolo. La saggezza di Salomone è qualificata come capacità di comprendere i propri limiti e, nello stesso tempo, di sentire la necessità dell’aiuto divino per distinguere il bene dal male. Salomone è molto giovane, nulla lascia prevedere la sua gloria, nulla lascia ancora prevedere la sua vita peccaminosa. Il Signore gli appare in visione notturna e promette di concedergli ciò che avrebbe domandato nella preghiera. E qui si nota la grandezza d’animo del giovano sovrano: Salomone potrebbe chiedere molto, ma non domanda una lunga vita, né ricchezze, né l’eliminazione dei nemici; dice invece al Signore: «Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male» (1Re 3,9).

Che cosa significa questa espressione? Il “cuore” nella Bibbia non indica solo una parte del corpo, ma il centro della persona, la sede delle sue intenzioni e dei suoi giudizi. Potremmo dire: la coscienza. “Cuore docile” allora significa una coscienza che sa ascoltare, che è sensibile alla voce della verità, e per questo è capace di discernere il bene dal male. Salomone chiede un cuore che sappia ascoltare, ascoltante. Non si tratta, dunque, di una saggezza quantitativa ma qualitativa.

L’esempio di Salomone vale per ognuno di noi. Perché ognuno di noi ha una coscienza per essere in un certo senso “re”, cioè per esercitare la grande dignità umana di agire secondo la retta coscienza operando il bene ed evitando il male. La coscienza morale presuppone la capacità di ascoltare la voce della verità, di essere docili alle sue indicazioni. Le persone chiamate a compiti di governo hanno naturalmente una responsabilità ulteriore, e quindi – come insegna Salomone – hanno ancora più bisogno dell’aiuto di Dio. Ma ciascuno ha la propria parte da fare, nella concreta situazione in cui si trova.

S.B.: La coscienza del fratello criterio dell’agire
La soggettività della persona non deve essere intesa in senso individualistico e solipsistico. È la soggettività di chi è chiamato a realizzarsi come unità di un tutto comunitario, insieme con i fratelli, come membro di un organismo, in cui la crescita personale va di pari passo con la crescita degli altri, a cui presiede come forza costruttiva l’amore.

L’amore al fratello, che per il credente in Cristo appartiene alla realtà stessa del suo rapporto fondamentale con Dio, non è soltanto un aspetto o un momento della sua vita morale: è piuttosto il criterio fondante e interpretativo della stessa vita morale in tutte le sue scelte, dato che l’amore è molto più che un comandamento. Questo criterio è di Paolo e ha una profonda radice teologica: Cristo ha dato la vita per tutti e grazie al suo sacrificio tutti siamo stati liberati dal peccato, ma l’accesso personale a questa grazia può essere reso difficoltoso da un ostacolo, da un elemento di inciampo o una trappola. E chi, in una situazione particolare, nella comunità cristiana diventa motivo di scandalo, pecca non solo contro il fratello dalla coscienza debole, ma contro Cristo stesso, perché lo separa da chi ha dato la vita anche per lui. Perciò se un gesto, in sé anche corretto, ferisce la coscienza debole di un fratello e lo induce a fare qualcosa che ritiene non giusto, anche se erroneamente, tale gesto, in nome della carità, non può essere posto.

Paolo puntualizza: non tutto è utile, non tutto edifica, non tutto va bene. Il principio generale è che nessuno metta sé stesso al centro dell’attenzione, nessuno ponga se stesso come criterio di giudizio e di valutazione. L’atteggiamento della carità che edifica richiede che sia l’altro al centro dell’attenzione. Contrapponendosi ad un’autorealizzazione del proprio io visto come microcosmo autosufficiente, Paolo vede la realizzazione della persona all’interno dei suoi rapporti e delle sue relazioni costitutive, in un processo di maturazione ad un tempo personale e comunitario. La carità, principio assoluto dell’agire cristiano, libera da una libertà individualistica e apre a una libertà costruttiva in senso comunitario. Così Gesù Cristo è stato libero, dando se stesso. Sotto questo aspetto possiamo anche comprendere la famosa espressione di sant’Agostino con la sua massima: “ama e fa’ quello che vuoi”.
S.B.: Linee essenziali dello sviluppo storico e teologico del tema-coscienza: Agostino e Tommaso
V.R.: Sin dall’inizio dei tempi l’uomo ha percepito nella propria coscienza il sacrario più intimo della sua stessa vita, come centro profondo dell’io personale, ciò a partire da cui prende senso e consistenza la stessa attività e operosità dell’uomo. Mi propone di tratteggiare le linee essenziali dello sviluppo storico e teologico del tema-coscienza di due grandissimi teologi e santi, per i quali avverto tanta sintonia a livello esistenziale.

Agostino, di cui ho appena citato una famosa massima, ha descritto in maniera molto vivida la realtà interiore della coscienza, mostrandone la complessità, le incertezze, la contraddittorietà; ma non è giunto ad offrircene una teoria concisa ed adeguata. Il vescovo di Ippona, con espressione lapidaria, definisce la coscienza «interior intimo meo et superior summo meo» (più interiore della mia intimità e più elevato della mia sommità).

In Tommaso d’Aquino troviamo una riflessione sviluppata sulla natura e sulla validità della coscienza, anche di quella erronea. Rispettare la coscienza significa per Tommaso pensare in maniera corretta e conseguente. Per Tommaso la legge “giusta” vincola sempre la coscienza. Occorre, inoltre, seguire sempre la propria coscienza, anche quando questa sbaglia. Ovviamente qui siamo molto lontani dal relativismo morale. Occorre una parola di spiegazione per non incorrere in tale equivoco.

Oggi, sovente, il pretesto di seguire la coscienza è un comodo alibi per erigere a criterio ultimo della moralità il proprio punto di vista o il sentimento personale. Per Tommaso – e per la tradizione ecclesiale – in realtà la coscienza morale non è mai intesa come giudice autonomo dei propri atti, ma come testimone interiore di un Giudice al di sopra di se stessi. Quindi si esige dalla coscienza che si apra radicalmente ad accogliere la luce e la bontà provenienti da Dio. Se questo non avviene, essa, da organo di luce, rischia di diventare causa di tenebra. Ecco perché la coscienza è molto più di “ciò che io penso”, cioè del proprio sentire personale su ciò che conviene o non conviene. La coscienza è ricercatrice instancabile di verità e di bene. La coscienza è certamente l’ultima norma, ma guai se essa rimane chiusa in se stessa: ha bisogno del respiro della comunità e della luce di Dio.
S.B.: La prospettiva individualista
V.R.: La coscienza ha acquisito, nella cultura moderna e contemporanea, una sempre maggiore centralità. L’importanza assegnata alla dignità e ai diritti del soggetto è cresciuta insieme con il riconoscimento del rispetto dovuto alla coscienza nell’ambito delle decisioni umane e con l’affermazione della sua piena libertà di espressione. Nonostante queste indubbie conquiste, essa soffre tuttavia di limitazioni e conflitti interpretativi, soggiacenti a diverse visioni antropologiche. Lo stesso termine “coscienza” può assumere significati diversi a seconda dei contesti in cui è usato e nella misura in cui indica una realtà articolata e complessa.

Questa sempre maggiore attenzione alla coscienza – di per sé positiva – è stata accompagnata da una crescente prospettiva individualista. La cultura moderna è contrassegnata dalla riduzione del soggetto a individuo, radicalizzata dall’affermarsi dell’industrializzazione e del sistema capitalista. Aver affidato alla coscienza sempre maggiore autonomia si è tradotto in autonomia anche delle stesse regole morali.

S.B.: La tendenza all’oggettivazione della coscienza causata soprattutto dalle interpretazioni delle scienze umane e in particolare della psicologia del profondo
V.R.: A questa spinta soggettivistica si oppone la tendenza all’oggettivazione della coscienza causata soprattutto dalle interpretazioni delle scienze umane e in particolare della psicologia del profondo: la coscienza morale sarebbe il risultato della introiezione del super-io sociale, l’assimilazione di comandi e divieti che il soggetto non scopre nella sua interiorità, ma sono il prodotto di un condizionamento esercitato su di esso. Questa visione però svuota la coscienza della sua identità soggettiva.

Da quanto su esposto risulta evidente che sia la riduzione individualistica sia la riduzione oggettivistica non sono in grado di esprimere la ricchezza della coscienza nella sua valenza morale. La prima, pur salvaguardando il legame della coscienza con l’interiorità del soggetto, la rende un dato solipsistico ed autoreferenziale; la seconda cancella di fatto la coscienza e la sostituisce con un determinismo meccanicistico che annulla ogni specificità dell’agire umano.

Ciò non di meno le stesse scienze umane hanno contribuito a considerare la complessità della coscienza nelle sue stratificazioni. La psicologia, ad esempio, ha evidenziato i delicati equilibri tra razionalità e inconscio, mentre la sociologia ha concorso a storicizzare la dimensione razionale della coscienza mettendo in luce il peso che rivestono le strutture sociali e i costumi del tempo e del luogo in cui si vive. Decisivo, per evitare forme esasperate di soggettivismo o di oggettivismo, è stato il contributo della riflessione personalista che ha dato una attenzione privilegiata alla persona e alla sua dimensione relazionale considerata come costitutiva della soggettività umana.

S.B.: Il rapporto tra coscienza morale, mass media e new media.
V.R.: Oggi l’impatto delle comunicazioni sociali è fortissimo. Le persone entrano in contatto con altre persone e con eventi, elaborano opinioni e valori. Non solo trasmettono e ricevono informazioni e idee attraverso questi strumenti, ma spesso la loro stessa esperienza umana diventa un’esperienza mediatica. La “rivoluzione” tecnologica sta rendendo i mezzi di comunicazione sociale sempre più diffusi e potenti.

Il mondo mediatico – è bene sottolinearlo – prima di essere un problema è una grande opportunità per l’educazione specificamente cristiana della coscienza e per la responsabilità pastorale. Il modo di usare questi mezzi di comunicazione, infatti, è il fattore che decide quale valenza morale possano avere. A seconda dell’uso che fanno dei media le persone possono sviluppare valori positivi, oppure rinchiudersi in un mondo di stimoli narcisistico e autoreferenziale con effetti quasi narcotizzanti. Anche quanti sfuggono i media non possono evitare il contatto con chi invece ne viene profondamente influenzato.

I social media e i new media in generale lanciano dunque nuove sfide alla cultura umana. Stanno infatti velocemente plasmando le nostre relazioni personali, familiari e sociali, come afferma Papa Francesco. Gli effetti della comunicazione mediatica sugli atteggiamenti della persona sono complessi: vanno dalla modificazione alla convalidazione, dalla attuazione alla inversione.

Per la coscienza morale è importante essere vigilante verso tutte quelle forme di manipolazione sofisticate e ammiccanti. Bisogna educarsi “ad abitare” il mondo di Internet – dove non tutti la pensano allo stesso modo – e dove i mobil born (i nativi digitali) si trovano immersi senza filtri e senza regole. Altrimenti, se non si matura la capacità di usufruire costruttivamente delle informazioni, si finisce, magari senza volerlo, per ridurre la coscienza a mera eco delle immagini e delle sensazioni indotte dai media. Una tale maturazione riguarda in special modo i ragazzi e gli adolescenti. Le ore che anche i più piccoli passano ormai con uno smartphone in mano, prigionieri del fascino della rete, lasciano un segno profondo in tutta la loro crescita, non solo morale.

S.B.: La coscienza morale del cristiano
V.R.: La coscienza morale del cristiano è una coscienza che si “realizza” nell’imitazione di Cristo. L’imitazione non consiste in una riproduzione materiale degli atteggiamenti di Cristo: i suoi gesti rivelano delle nuove norme di vita che non si impongono al modo delle leggi esterne e nemmeno per semplice obbedienza. Tra Cristo e i suoi discepoli c’è una profonda comunione di vita e di amore, che trasforma l’uomo, lo alimenta e lo “regola”. Seguire Cristo significa, dunque, entrare in questa forza creatrice dell’amore divino per essere profondamente trasformati.

La vera e unica norma morale invariante è cercare Dio e seguirlo. L’esistenza morale del cristiano, di conseguenza, si definisce in un rapporto di sequela al Cristo, iniziato nell’evento battesimale, come accoglienza e risposta ad un dono che lo ha reso “nuova creatura”. La vita del cristiano, radicata in Cristo, cresce in un progressivo cammino di maturazione, entro una relazione personale eucaristica con Dio. In questo senso si può parlare dell’eucaristia come un “discepolato”, una scuola di vita, un radicarsi in Cristo.

Seguire Gesù significa vivere come Gesù – uomo-di-Dio-e-per-Dio, uomo-per-gli-altri -, significa perciò stesso prendere lui come modello cui ispirare la propria vita.

 

 

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