Global Connection – un processo di riunificazione? Seconda parte: Mafietta nera, la storia di un Golpe Nostro

Potrebbe significare altre saldature, e soprattutto la necessità di rifare la Storia di certe vicende del nostro Paese, anche da tempi assai lontani. […] Questi elementi comportano la necessità di un’indagine molto approfondita che peraltro stiamo svolgendo, e che prevediamo non si possa esaurire in tempi brevi. Giovanni Falcone

Cosa Nostra sta rinnovando il sogno di diventare indipendente, cioè di diventare padrona di un’area dell’Italia, uno Stato loro, nostro. In tutto questo Cosa Nostra non è sola, ma è aiutata dalla massoneria. Ci sono forze nuove a cui si stanno rivolgendo, non tradizionali, non vengono dalla DC.

 

Sono parole di Leonardo Messina, dichiarate alla Commissione Parlamentare Antimafia del 4 dicembre 1992, insieme ad altre numerose e scandalose rivelazioni che avrebbero senz’altro contribuito a una ricostruzione più consapevole del fenomeno mafioso, se fossero state acquisite con maggiore peso. Invece, a questi elementi è stata dedicata una leggerezza inspiegabile. La stessa leggerezza dimostrata per le dichiarazioni di Luciano Liggio al maxiprocesso di Palermo nel 1986, quando il capo del Clan dei Corleonesi parlò di una proposta pervenuta durante il suo soggiorno a Catania nella primavera inoltrata del ’70 di contribuire a un colpo di Stato in Italia. A detta sua, questi erano venuti dall’America per contrattare il golpe e si sarebbero rivolti a lui tramite Cicchiteddu – Salvatore Greco, membro di spicco della cupola – e Tommaso Buscetta, attribuendosi in modo non troppo velato un’importanza senza pari all’interno di Cosa Nostra. Ma il boss avrebbe rifiutato il sostegno richiesto e per questo motivo ne avrebbe pagato le conseguenze negli anni a venire, prima con l’arresto e poi con le stesse imputazioni del maxiprocesso.

 

Tutto, ho rifiutato tutto, di dare l’avallo, costi quel che costi. Non me la sono sentita di avallare la possibilità di portare il Paese in un regime totalitario.

 

Il forte sentimento democratico di un mafioso di quella risma ha senz’altro contribuito a ritenere inverosimile la dichiarazione, soprattutto per la prevedibile conclusione mirata a screditare le dichiarazioni di Tommaso Buscetta:

 

Succede che al mio rifiuto si perde l’affare. Ecco perché Buscetta è così accanito contro i Corleonesi, è questo il motivo. Non ci sono altri motivi.

 

In verità, è poco credibile anche la delegazione Greco-Buscetta a Catania per una richiesta di avallo a Liggio, che non era sicuramente il cosiddetto “capo dei capi” – tradizionalmente il rappresentante delle famiglie di Palermo o, più genericamente, il rappresentante più rispettato e più influente – nella cupola di Cosa Nostra e, sicuramente, non godeva di maggiore considerazione di Salvatore Greco né di maggiore influenza di Tommaso Buscetta. Anche quest’ultimo raccontò di una proposta di partecipazione a un golpe, sempre nello stesso anno e nelle stesse modalità dichiarate da Liggio, ma più verosimilmente durante un incontro tenutosi a Milano, e imputò il rifiuto al boss Gaetano Badalamenti, che all’epoca si trovava in soggiorno obbligato nella vicina Macherio, dove contribuì in modo significativo all’organizzazione del narcotraffico in Nord Italia. Alla proposta di supportare il golpe avrebbe detto: A noi i fascisti non ci hanno mai sopportato e noi andiamo a fare un golpe proprio per loro? Una presa di posizione molto più credibile di quella espressa da Liggio, dato che il potere di Badalamenti era in piena crescita grazie al narcotraffico e qualsiasi squilibrio l’avrebbe esposto a maggiori rischi di perderlo, come poi avvenne nel 1978 a causa della prorompente ascesa corleonese. A proposito del potere mafioso in Nord Italia, è da notare come il declino di Badalamenti coincida con l’avvio di un graduale passaggio delle attività ‘ndranghetiste dai sequestri di persona al narcotraffico, fino alla costituzione di una camera di controllo della Lombardia nel 1984; un vero e proprio cambio di guardia mai protestato da Cosa Nostra e, anzi, approvato dalle fitte collaborazioni che emersero nelle indagini degli anni successivi. Ma, ai fitti legami tra le mafie, non hanno nulla da invidiare i rapporti di queste ultime tra neofascismo e massoneria deviata, le cui trame di potere sembra abbiano giocato un ruolo da collante nel processo di riunificazione mafiosa, e al giorno d’oggi non si contano le coincidenze tra fatti apparentemente distaccati tra loro.

 

Viale Lazio, Piazza Fontana, Gioia Tauro: la mafia in… Borghese

Il Clan dei Corleonesi fece il suo ingresso a Palermo nella sera del 10 dicembre 1969 con l’eliminazione del clan Cavataio: fu la strage di viale Lazio, commissionata dalla cupola per le tensioni che avevano interessato i vertici di Cosa Nostra negli anni precedenti. Cinque morti e due feriti su cui i giornali non ebbero il tempo di soffermarsi a lungo, perché appena quaranta ore più tardi furono distratti da un fatto ben più disturbante avvenuto nell’altro capo d’Italia: la strage di Piazza Fontana, con diciassette morti e ottantotto feriti, tragica apertura della Strategia della Tensione che caratterizzò gli Anni di Piombo. Appena un quarto d’ora dopo la strage milanese, esplose un’altra bomba nel sottopassaggio della Banca Nazionale del Lavoro di Roma, seguite da altre due nell’arco di mezz’ora all’Altare della Patria e al Museo del Risorgimento che provocarono sedici feriti, e una seconda bomba a Milano fu rinvenuta inesplosa in piazza della Scala nella sede della Banca Commerciale Italiana, fatta brillare dagli artificieri la sera stessa. Tra innocenti e colpevoli coinvolti nell’infinità dei processi che seguirono, spicca il nome del fondatore del movimento neofascista Avanguardia Nazionale Stefano Delle Chiaie, lo stesso che compare in una relazione di servizio del 5 ottobre 1992 del capitano dei carabinieri Gianfranco Cavallo, secondo cui il terrorista sarebbe stato in rapporti col mafioso Mariano Tullio Troia e avrebbe procurato l’esplosivo per uccidere Giovanni Falcone nella strage di Capaci. Compare anche il nome dell’ambiguo Antonio Sottosanti, un presunto anarchico che si definiva “mussoliniano” ed era soprannominato “Nino il fascista”, ribattezzato dalla stampa “il sosia di Valpreda” in riferimento ad uno dei principali anarchici accusati di aver posizionato la valigia con la bomba in piazza Fontana; così come Valpreda fu assolto, Sottosanti non fu mai processato per la strage. Dopo una vita burrascosa tra la nascita in Slovenia – il padre fu ucciso da antifascisti slavi nel 1930, quando aveva due anni – e una carriera nel reparto informativo della Legione Straniera Francese, Sottosanti concluse i suoi anni nella città d’origine dei suoi genitori, dove si era già trasferito più volte: Piazza Armerina.

 

Chi arruolò tutta questa massa di gente, settemila, ottomila… perché il colpo di Stato apparisse come uno stato di necessità. Perché quello che si doveva creare, l’impegno che questa gente voleva, era che si creasse un clima per cui il colpo di Stato venisse giustificato, uno stato di bisogno. Se non che Luciano non accetta, non accetta, non si piega a nessun ricatto.

 

Luciano Liggio non era il capo dei capi, parlava talvolta di sé in terza persona ed era un gradasso, ma rientrava perfettamente nel costume mafioso: nulla è dichiarato per caso, neanche le possibili cialtronerie, e si parla per paradossi. Come gli esattori del pizzo di una volta, che dicevano la tipica frase ai commercianti Io ti voglio bene, ma tu mi devi capire, che andava intesa in senso contrario: se il commerciante non fosse stato comprensivo e accondiscendente con l’esattore, quest’ultimo gli avrebbe voluto male. Il fatto che Liggio dichiarò di non aver accettato di prendere parte al golpe per non piegarsi a un ricatto, si potrebbe pertanto interpretare come una dichiarazione resa proprio per ricattare qualcuno. Allo stesso modo di come il cantastorie Ciccio Busacca raccontò di essere stato minacciato alla fine degli anni Settanta:

 

“Noi ti vogliamo bene, con tante canzoni belle che abbiamo in Sicilia […] ti metti a cantare ‘ste cose, a parlare di mafia, a parlare di Turiddu Carnevale, il Treno del Sole… ma chi ti ci porta?”

 

Per onore di cronaca: Ciccio Busacca non si lasciò intimorire, ma dovette lasciare la Sicilia. Che alla mafia infastidisse un cantastorie che raccontava al popolo di Cosa Nostra o di un sindacalista ucciso dalla stessa è comprensibile, un po’ meno che desse fastidio il racconto tragico di fame ed emigrazione che aveva come pretesto e titolo quello che fu obiettivo della poco ricordata strage di Gioia Tauro, avvenuta il 22 luglio del 1970 col deragliamento del treno direttissimo Siracusa – Torino, il Treno del Sole, che provocò sei morti e settantasette feriti.

Un fatto mai risolto, prima imputato a un incidente e poi attribuito a una bomba associata alle agitazioni che seguivano nei dintorni di Reggio Calabria da un anno a quella parte per contestare l’assegnazione del capoluogo calabrese a Catanzaro. Blocchi ferroviari e stradali, interruzione del servizio traghetti per Messina, scioperi, cortei, barricate contro le forze dell’ordine e persino proclamazioni secessioniste dei rioni – come il rione Sbarre, capeggiato dal neofascista Ciccio Franco, protagonista indiscusso dei moti che coniò il motto “Boia chi molla” – che né la Democrazia Cristiana né il Partito Comunista riuscirono a placare: la DC era divisa tra chi assecondava i moti e chi li criticava, il PCI non appoggiava i gruppi eversivi di sinistra che scesero in campo, ma i gruppi neofascisti di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale erano attivi e coesi nel Comitato Unitario per Reggio Capoluogo, fondato il 3 agosto insieme al movimento Fronte Nazionale, nato appena due anni prima da dissidenti del Movimento Sociale Italiano e che quello stesso anno sarebbe stato sciolto. Nonostante la breve vita di questo movimento eversivo, il Fronte Nazionale era molto importante per via del suo presidente, tanto che fu organizzato un suo comizio proprio in occasione della costituzione del comitato reggino: si trattava del principe nero Junio Valerio Borghese, l’ex comandante della X Flottiglia MAS, l’orgoglio mussoliniano della Regia Marina e poi della Repubblica Sociale Italiana; principe, militare, fascista, criminale di guerra protetto dai servizi segreti USA, beneficiario dell’Amnistia Togliatti, missino dissidente e bancarottiere occasionale nella presidenza onoraria che ricoprì dal 1963 al 1968 alla Credicomin, la Banca di Credito Commerciale e Industriale, acquistata nel 1960 dalla Società Finanziaria Italiana a un certo Michele Sindona, il piduista ricordato come “banchiere della mafia” che tornò sugli interessi di quella banca nel 1965 con un’abilissima speculazione organizzata insieme all’esponente dell’Opus Dei spagnola don Julio Munoz, al figlio dell’ex dittatore di Santo Domingo Rafael Trujillo Junior e all’avvocato difensore di quest’ultimo, lo statunitense repubblicano Richard Nixon.

Era la terza volta che Borghese tentava un comizio a Reggio Calabria nel giro di un anno: la prima volta fu il 25 ottobre 1969, annullato per la revoca del questore, decisione che causò disordini in piazza. La seconda volta fu programmato per il 7 dicembre di quell’anno, ma in seguito a un secondo diniego del questore scoppiò una bomba nella Questura di Reggio Calabria la sera del 6; appena undici giorni dopo furono rintracciati gli esecutori, Giuseppe Schirinzi e Aldo Pardo, due figure che nella primavera del 1968 avevano compiuto un addestramento eversivo nella Grecia dei Colonnelli. Furono arrestati il 17 dicembre a Roma, dove cinque giorni prima erano scoppiate le bombe alla Banca Nazionale del Lavoro, all’Altare della Patria e al Museo del Risorgimento, in concomitanza con la strage di Piazza Fontana. Un altro elemento non trascurabile avvenne a Montalto la sera dopo in cui era programmato il primo comizio negato, il 26 ottobre 1969: la riunione annuale dei vertici della ‘Ndrangheta, quell’anno in sostituzione della tradizionale riunione annuale a Polsi durante la prima settimana di settembre, a cui tuttora non è escluso che Borghese avrebbe potuto presenziare.

Nascondigli in Calabria

Tornando al terzo tentativo di comizio nell’agosto del 1970, anche quella volta fu negato dal questore e i Moti di Reggio presero una piega inaspettata: i gruppi anarchici reggini organizzarono le nuove manifestazioni con l’intento di combattere l’ipocrisia e lo strapotere della mafia politica e dei baroni rossi – dalla dichiarazione diffusa dall’emittente clandestina Radio Reggio Libera il 17 settembre – e fare luce sul deragliamento del Treno del Sole. Già da tempo un gruppo di cinque giovani militanti stava raccogliendo documenti sui rapporti tra neofascismo e mafia intrattenuti sul territorio reggino, e il 26 settembre – in coincidenza con le proteste per la visita in Italia di Richard Nixon, lo stesso accennato prima, divenuto ormai Presidente degli Stati Uniti d’America – partì alla volta di Roma per incontrare l’avvocato Eduardo Di Giovanni, che curava la controinchiesta sulla strage di Piazza Fontana, e per consegnare la documentazione al giornale anarchico Umanità Nuova. Sull’Autostrada del Sole, all’altezza di Ferentino, un camion travolse la loro auto. I documenti non furono mai trovati, fu considerato a lungo un incidente e lo stesso camion, un mese e un giorno dopo, uccise otto persone in un altro “incidente” tra Lodi e Melegnano in circostanze mai chiarite; l’autista Serafino Aniello, il cui fratello Ruggero figurava come proprietario del camion, gestiva la trattoria di Striano O spuntino e fu accusato dal poeta anarchico Giovanni Marini di essere un dipendente diretto di Junio Valerio Borghese.

I Moti di Reggio proseguirono con un debole ritorno delle redini neofasciste, col susseguente smantellamento di barricate e un graduale affievolimento delle tensioni entro l’anno successivo. Solo nel 1993, con la confessione dei pentiti Giacomo Lauro e Carmine Dominici, quest’ultimo tra l’altro esponente di Avanguardia Nazionale, è emersa una regia ‘ndranghetista nei fatti di Reggio Calabria e nella strage di Gioia Tauro: a detta loro l’incontro tra Borghese e i capibastone della Locride avvenne veramente su intercessione del suo avvocato reggino Paolo Romeo, che verrà condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa solo nel 2004 e a cui si riuscirà a strappare una confessione inerente ai suoi rapporti ‘ndranghetisti solo nel Processo Gotha del 2021, in merito alla copertura offerta a un latitante. Le dichiarazioni dei due pentiti, oltre a confermare quelle del maxiprocesso di Palermo sugli intenti golpisti delle mafie, si uniscono ad ulteriori dichiarazioni del pentito di Cosa Nostra Antonio Calderone nel Processo Andreotti tra il 1993 e il 2004.

 

I collegamenti risalgono a certi passaggi del golpe Borghese, in cui sicuramente era coinvolta la mafia siciliana. E ci sono inoltre collegamenti con la presenza di Sindona.

(Giovanni Falcone alla Commissione Antimafia del 1988)

 

Oltre a Cosa Nostra, è certo che la P2 di Licio Gelli fosse nella cabina di regia del golpe Borghese intrapreso nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970, com’è certo che boss come Stefano Bontade e Salvatore Greco fossero iniziati a delle logge massoniche e che, oltre a un coinvolgimento spregiudicato di forze armate come il generale piduista Vito Miceli – che avrebbe dovuto aiutare Licio Gelli ad accedere al Quirinale e a sequestrare il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat – e terroristi neofascisti come Stefano Delle Chiaie – che arrivò persino a entrare nel Ministero dell’Interno alla guida dei militanti di Avanguardia Nazionale e a trafugare duecento fucili dall’arsenale ministeriale – in Calabria fossero pronti quattromila ‘ndranghetisti per supportare il colpo di Stato non appena Borghese avrebbe ultimato l’assalto alle sedi governative e comunicative della capitale. Per quanto concerne le relazioni dei golpisti con l’estero, nel 2004 è emerso un documento inerente una conversazione svoltasi quattro mesi prima che Borghese tentasse il colpo di Stato, il 7 agosto 1970, tra il “mediatore” del golpe Adriano Monti – ex agente del servizio segreto alleato nella Germania postbellica – e l’ambasciatore statunitense Graham Martin; ma la posizione degli USA non è mai stata chiarita, tantomeno eventuali intercessioni di Cosa Nostra statunitense che, tuttavia, non stupirebbero, dati i frequenti soggiorni negli USA di Tommaso Buscetta e Salvatore Greco, tra un incontro e l’altro per la preparazione del golpe.

Quello che avvenne è Storia: il contrordine inspiegato dello stesso Borghese poco prima delle due di notte, il ritiro delle unità e l’annullamento del golpe, l’ennesima fuga del principe nero nella Spagna franchista e la vicenda che balzò agli onori delle cronache solo nel mese di marzo del 1971.

 

È un’indagine estremamente complessa perché si tratta di capire se, e in quale misura, la “pista nera” sia alternativa a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa.

 

Giovanni Falcone non aveva dubbi sull’importanza di ricostruire i rapporti tra neofascismo, P2 e mafia, al punto che non ebbe scrupolo a dichiarare alla Commissione Antimafia del 1988:

 

Potrebbe significare altre saldature, e soprattutto la necessità di rifare la Storia di certe vicende del nostro Paese, anche da tempi assai lontani. […] Questi elementi comportano la necessità di un’indagine molto approfondita che peraltro stiamo svolgendo, e che prevediamo non si possa esaurire in tempi brevi.

Osso Mastrosso e Carcagnosso

 

Non sappiamo nulla di quelle indagini, se non che non ebbe il tempo di concluderle. Se non che Paolo Borsellino stava seguendo quella stessa pista e che anche lui, di lì a poco, non ebbe più il tempo. Se non che questa storia ha forse esaurito il tempo utile affinché possa scongiurarsi un eventuale pericolo che, ormai, è una naturale conseguenza dei fatti. E i fatti di questa storia, di certo, sono ancora la trama di oggi.

Per ricollegare questo il link della prima parte:

https://www.leculture.it/cultura/mysteria/global-connection-un-processo-di-riunificazione-prima-parte-ntranchiti/

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