La Sicilia e la storia dei suoi artisti di strada emarginati “La musica dei ciechi” con la regia di Valerio Santi

Al Teatro “L’Istrione” come sempre si assiste a dei lavori che ti aprono la mente e ti leggono nel cuore. In un video troverete tutta l’emozione degli attori, e le meravigliose foto di Giovanna Mangiù

“La musica dei ciechi” è un dramma teatrale scritto da Raffaele Viviani, attore, regista, capocomico, commediografo nonché protagonista di grande rilievo della drammaturgia napoletana del ‘900.

 

Pur essendo un autore ormai poco presente nelle programmazioni teatrali italiane, Viviani resta senza dubbio un alto punto di riferimento per il teatro partenopeo, sia per via della sua poetica, sia per l’innovazione che apportò al teatro di quell’epoca, unendo il genere dell’avanspettacolo (molto diffuso tra fine ‘800 e primo ‘900) a quello della prosa, distaccandosi dai canoni classici del dramma realistico in cui abitualmente si sviluppava una determinata vicenda, creando dunque una sorta di nuovo linguaggio drammaturgico composto da una fusione perfetta fra dramma personale e ambiente pittoresco, fra senso e colore, fra musica e parole, ilarità e amarezza.

Viviani, restituisce nelle sue opere un Teatro fatto di creature vive, umane, portando sulla scena personaggi tragicomici della realtà come scugnizzi, guappi, puttane, ladri, vagabondi, all’interno di scenari popolari come vicoli, rioni e quartieri malfamati, dove primi su tutti regnano la fame e la miseria, la povertà e il degrado, riflettendo così la cinica e dura realtà storico-sociale del popolo napoletano. Ne “La musica dei ciechi” infatti, protagonisti sono un gruppo di musicisti non vedenti, attraverso la quale Viviani racconta la condizione sociale drammatica della diversità in cui miseria, povertà ed emarginazione coincidono perfettamente.

L’idea di rappresentare questo testo deriva non solo dalle tematiche sociali di grande importanza e attualità che l’autore affronta nella sua opera e che accomunano per usi, modi e tradizioni in modo particolare la parte meridionale del nostro paese, ma bensì per un altro e ben più fitto legame che vi è tra la cultura napoletana e quella siciliana, ovvero i suonatori ciechi.

Nella nostra tradizione infatti gli “Orbi” (ciechi) costituiscono una vera e propria parentesi storica della cultura siciliana; tra la metà del XVII ed il XX secolo, chi nasceva affetto da cecità o col tempo lo diventava per qualche ragione, veniva indotto alla pratica di uno strumento musicale al fine di poter avere un mezzo sicuro di sostentamento.

Grazie ai Padri Gesuiti, intorno al 1644 soprattutto nelle città di Palermo, Messina e Catania, nacque una vera e propria confraternita di suonatori ciechi (da non confondere con i cantastorie) il cui compito era quello di cantare e suonare – dove richiesto – accompagnando all’occorrenza il sacro al profano, anche se la loro permanenza e popolarità fino al ‘900 la si deve principalmente al repertorio religioso composto da cunti, orazioni, novene e triunfi con cui gli Orbi per conto dei Gesuiti evangelizzavano e catechizzavano il popolo.

Per questa ragione si è scelto di trasportare l’opera di Viviani dal Borgo Marinaro di Napoli (luogo originario dell’ambientazione), a Catania, immaginando come scenario della rappresentazione la quieta e silenziosa Piazza Alonzo di Benedetto all’imbrunire della sera, dopo il caos variopinto e folcloristico della pescheria, svolgendo un accurato lavoro non solo sulla traduzione del testo – dal dialetto napoletano a quello siciliano – ma bensì sulla musicalità, i sapori e i colori che l’autore descrive attraverso l’espressione linguistica del proprio popolo, cercando di riprodurla fedelmente nei suoni e nel gusto attraverso il nostro linguaggio d’origine.

Busto di Frontini al Giardino Bellini trafugato e mai ritrovato autore Mimì Maria Lazzaro nel 1957

Allo stesso tempo si è scelto di introdurre un rimando ad un’altra grande forma artistica appartenente al nostro patrimonio culturale, la cui pratica avveniva tra le strade e le piazze della città, ovvero l’Opera dei Pupi, inserendo tra i personaggi della pièce la figura di un Maniante (colui che muove i Pupi) anch’esso cieco, che tra un numero musicale e l’altro animerà – non a caso – la maschera popolare catanese per eccellenza, Peppininu, scudiero di Orlando e Rinaldo nonché metafora fra la lingua parlata e il dialetto, personaggio fortemente legato all’opera in questione sia per l’estrazione ed il linguaggio popolare con cui si esprime, sia per via del suo occhio non vedente.

Anche i brani musicali presenti nell’opera originale, sono stati sostituiti con altri appartenenti alla nostra tradizione, parte composti dal Maestro Francesco Paolo Frontini (noto compositore e direttore d’orchestra catanese scomparso nel 1939, oggi caduto nel dimenticatoio), parte recuperati dal repertorio storico siciliano degli Orbi, il cui reperimento deriva da lunghi studi e ricerche tra le memorie di anziani del luogo, rendendo questo progetto non una consueta rappresentazione teatrale ma bensì una vera e propria operazione culturale sulla nostra tradizione.

In scena un cast di assoluto rispetto composto oltre che dallo stesso Valerio Santi, da Concetto Venti, Salvo Scuderi, Cinzia Caminiti, il polistrumentista Giorgio Maltese, il Maestro Mimmo Aiola, il puparo da generazioni Marco Napoli, la memoria storica della Civita Melo Zuccaro e il giovane Manfredi Rondine.

 

 

 

 

 

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