Arthur Timóteo da Costa (1882-1922) è stato un pittore del Sud del mondo, morto quarantenne e sconosciuto ai più. Afro-brasiliano e con una discreta carriera fatta di presenze in alcune rassegne artistiche, anche europee, ai primi del Novecento, ha incarnato negli autoritratti e nei dipinti la “saudade” – quella nostalgia che rasenta la tristezza, tipica di un’area geografica dove il contrasto tra fatalità e vita è stato da sempre protagonista.
Farsi un’idea di quest’uomo è semplicissimo: di colore, ha dipinto per lo più soggetti dalla pelle scura e dalle espressioni dolorose. Sembra che niente abbia potuto allietare il suo animo, neanche lo schiamazzo dei carnevali di Rio che dipinge in O dia seguinte (Il giorno dopo, 1913), avendo in punta di pennello e nella testa il sentimento eracliteo del Panta rei, o dell’adagio più pessimista di Sic transit gloria mundi!
Di questo sentimento del tempo colpisce, però, una sfumatura. In un dipinto dal titolo no Ateliê (Nell’Atelier) del 1918, da Costa tenta di agguantare di questa dimensione il gioco tra passato e presente, di fatto difficile da rendere su tela. Di qui, l’invenzione di un soggetto dall’uso corrente, quale quello della committenza di un ritratto, ma caricato di un simbolismo che richiama la possibile rappresentazione del “divenire”.
Da Costa propone al lettore del suo quadro che cosa possa accadere all’interno dello studio di un artista, nel momento in cui questi ritrae un soggetto. Il dipinto, dunque, non rappresenta il soggetto, di fatto un pretesto. Il quadro non è pensato come mero atto di riproduzione di una realtà (il ritratto del committente), ma è ideato per raccontare come nell’azione del trasferimento su tela tra il pittore e il suo modello si sia instaurato un legame dentro il tempo della costruzione del ritratto. E che questo intervallo temporale sia possibile raccontarlo a chi osserva il quadro.
Il secondo livello, ben più teoretico, è invece legato al rapporto tra originale e copia, mettendo in rilievo la dinamica del distacco della forma dalla realtà originaria e la sua ristrutturazione all’interno della percezione dell’artista. Ma procediamo con ordine.
Il dipinto racconta di un pittore che con tutta probabilità sta per ultimare l’opera. È lo stesso Arthur Timóteo che si autoritrae. Si vede chiaramente la messa in evidenza della tecnica dello sfondo del quadro che ha già dipinto e la diversa risoluzione dei particolari. Il dipinto è alle battute finali: sta dando forza agli ultimi ritocchi sul braccio, esattamente quello che il pittore copre con il suo corpo e la cui parte originale lo spettatore non può cogliere da un potenziale confronto. Il fatto che sia proprio quella la parte da rifinire comunica a chi guarda il dipinto che il pittore del quadro vuol rivelare per intero il suo modello, senza indurre a pensare che vi sia una parte “nascosta”.
Ma Arthur Timóteo vuol raccontare che cosa è accaduto “prima” di tutto ciò, nei minuti immediatamente precedenti quest’ultima sessione di pittura, e anche nei giorni passati. Lo fa dicendoci che il copricapo a cilindro che adesso è riposto sul comò era stato già dipinto; che il personaggio che si fa ritrarre non tiene più il bastone da passeggio tra le mani e che adesso la sua mano destra può rilassarsi ed essere fuori posa, perché l’attenzione è tutta concentrata su quella sinistra e sul panneggio della manica. Il modello si è fermato nello studio per un tempo ridotto: forse era di passaggio. Si tratta solo di dar colore e precisione ai dettagli. Il tempo di posa non sarà prolungato come quello degli altri giorni. Lo stesso Arthur Timóteo si è messo subito al lavoro. Ha sollevato il drappo verde smeraldo che copre il dipinto, già bisunto da altri colori perché utilizzato molte volte, e lo ha gettato spiegazzato sull’alta spalliera di una sedia. Vuol dare continuità a questo breve spazio di tempo disponibile senza perdere minuti; così insieme alla mestica tiene in mano un mazzo di pennelli, segno che sta maneggiando diversi colori nello stesso momento. Non c’è dubbio che siamo ai tocchi finali e che l’impazienza del committente sarà presto soddisfatta, proponendogli il ritratto finito. Le borchie dei chiodi che sigillano la tappezzeria dell’imponente sedia potranno essere rifinite successivamente.
Non è un caso che da Costa abbia dato il titolo a questo dipinto di no Ateliê. Perché il senso di tutta la raffigurazione è quello di innestare nella fissità dell’immagine il racconto dinamico di una temporalità che in parte è già stata e in parte si sta compiendo. Da questo punto di vista è geniale la soluzione di far raccontare alla tela raffigurata i tempi del passato remoto e del presente, riservando alla dissonanza dei particolari, scaturenti dal confronto degli elementi presenti/assenti tra tela e modello, lo svolgersi di quel passato prossimo che abbraccia la parentesi temporale dal momento dell’ingresso del committente nello studio fino a quello della posa. Quest’ultima si configura, poi, come l’istante stesso in cui il tempo del quadro finisce e il tempo significante complessivo, che Arthur Timóteo ci ha voluto consegnare come messaggio, viene proposto ai nostri occhi.
Il tempo che trascorre nello studio di Arthur Timóteo è dunque simmetrico a quello che egli ci fa immaginare sia trascorso nello studio del pittore Arthur Timóteo del dipinto.
Questo parallelismo, altrimenti non rappresentabile, vale a evidenziare il tempo della strutturazione e della crescita dell’opera d’arte nella sua espansione e nel suo progressivo perfezionamento, fino al compimento dell’istante in cui l’artista decide che essa sia stata ultimata. Ecco, questo tempo che nel quadro sembra circolare nel rimando chiuso e triangolare delle tre teste, praticamente sullo stesso piano, si frange nel momento in cui al centro della scena la tuba capovolta (esattamente all’incrocio delle diagonali) si offre al barbaglio della luce di un lume nascosto. Lì da Costa vuole che si guardi e a partire da quel particolare iniziare a gustare la circolarità tra segni.
In questo locus seminascosto (e questo è il secondo messaggio del quadro), Arthur Timóteo comunica, attraverso il simbolismo del rispecchiamento della statua, il gioco dei rimandi tra originali e copie, che rinvia – come fosse la parte per il tutto – alla duplicazione nel dipinto della scena reale accaduta nello studio.
Scartata l’ipotesi che si tratti di un tempo identico, la realtà della rappresentazione di quel tempo nel dipinto non è per questo meno consistente e reale di quella che si è consumata nel vero atelier di da Costa. Tutto è stato vero: reali le percezioni delle sequenze, vere le persone e le collocazioni degli oggetti, veri gli spazi, oggettivo il dispiegarsi dei significati.
È la presenza inquietante e dominante della maschera che signoreggia sulla scena a ricordare allo spettatore sia la finzione, sia la serietà del gioco del tempo. Il suo essere al chiodo ne attesta la simbolicità: non è più pronta per essere indossata. Quella maschera è come se vivesse in uno stato di sospensione, ma induce in egual misura al ricordo che in quella stanza dipinta si dispiega un fluire di apparenze che da un lato sono parvenze e percezioni coagulate nella rappresentazione di significati, dall’altro sono realtà che ci appartengono, che vanno decodificate e, se possibile, dominate. Il Tempo è una di queste, certamente tra le prime. Solo attraverso le sembianze delle azioni, esso prende la forma di significati, che per lo spettatore acquistano una qualche credibilità. Da Costa comunica che tra i soggetti di quel dipinto mentre il pittore che sta dentro la tela dipingeva il suo soggetto, è accaduto qualcosa. E quel dipinto riflette interamente ciò che si è dato nella realtà dello studio di Arthur Timóteo da Costa, mentre egli lo dipingeva.
In ossequio a Lucrezio, il tempo non si può concepire separato dal movimento dei corpi. E da Costa ha inteso sovrapporre almeno due, forse tre fotogrammi, sulla stessa superficie e su questa specifica questione. Così letto, il quadro è un resoconto, una microcronaca che a causa dell’impossibilità di essere detta a parole (come è invece possibile fare in un racconto scritto) viene rappresentata soltanto attraverso un gioco di rimandi iconici, interni tra essi. E di tutti loro con l’esterno. Nella divergenza dei particolari, da Costa ha inconsapevolmente accreditato l’assunto di Gilles Deleuze, riguardo alle caratteristiche del rapporto tra storia della filosofia e filosofi, che può benissimo essere esteso alla relazione tra le opere d’arte e le loro storie. Scriveva Deleuze: “La storia della filosofia non è una disciplina particolarmente riflessiva, assomiglia all’arte del ritratto in pittura. Si tratta di ritratti mentali, concettuali. Come in pittura, bisogna farli somiglianti, ma con mezzi dissimili, differenti”.
I filosofi raccontati da una Storia non sono gli stessi filosofi che ciascuno legge. Allo stesso modo, il dipinto che da Costa ha prodotto non è lo stesso dipinto che il da Costa che si autorappresenta ha consegnato al suo committente. Affinché ci sia simmetria, è necessario sottrarre da quella scena pittore e modello, rispettivamente protagonista e deuteragonista dell’azione. Questi due importanti resti sono ciò che effettivamente sono esistiti in entrambi i tempi, fuori e dentro la tela. E solo grazie a essi è stato possibile costruire la rappresentazione di una storia, l’altrettanto possibile racconto per mezzo di particolari simbolici e, infine, la narrazione della costruzione di un episodio semplice, quale quello dell’esecuzione di un ritratto. È questo il senso dell’umanità nel Tempo: la coscienza di raccontarsi, anche nell’arte.