In questi giorni l’emergenza sanitaria mondiale fatica, nonostante l’avviata esperienza della vaccinazione, positiva pur se diffusa a macchia di leopardo, a trovare una soluzione politica pacificante.
In Italia mentre scrivo, si attende l’introduzione per legge del Green pass, strumento di verifica preventiva che dal 15 ottobre caratterizzerà l’attività pubblica e privata del paese.
Il Governo col Green pass ha scatenato proteste diffuse ed alimentato un improvviso stato di tensione sociale.
L’esperienza sanitaria che ha portato alla vaccinazione è stata costellata, lo sappiamo, da una serie di messaggi e comunicazioni al paese a volte contraddittori che hanno introdotto in una parte minoritaria della popolazione dubbi e addirittura negazioni sull’efficacia della vaccinazione. Sicchè vi è ad oggi, una sacca di popolazione, valutata intorno agli otto milioni di persone non vaccinata e che non intende farlo.
Questo stato di fatto sembra aver interrotto il dialogo necessario con una parte non indifferente della nazione.
A proposito della necessità del dialogo, qualche giorno fa ho letto alcuni articoli e recensioni che hanno accompagnato l’uscita di “Discutere in nome del cielo” un saggio scritto a quattro mani da Vittorio Robiati Bendaud, coordinatore del Tribunale rabbinico del centro-nord Italia e da Ugo Volli, già docente di semiotica e filosofia del linguaggio all’Università di Torino.
Gli autori, pur considerando essenziale ed importante il dialogo fra gli uomini, convinti che l’approdo concorde non sia per niente scontato nè banale, hanno sviluppato la nozione di dialogo partendo dalla sua etimologia che già ne rivela tutta la problematicità.
“La parola dialogos, voce tarda che si trova nel lessico greco solo a partire da Platone e Aristotele, indica dunque un logo-fra2, un logos diviso che al contempo unisce e separa: spesso è usato per nominare una ‘conversazione’ o un’‘udienza’. Il suo correlato dialoghé, a partire da Erodoto, vale ‘distinzione’, ‘separazione’; il verbo dialego significa anzitutto ‘scelgo’, ‘raccolgo’, ‘distinguo’, per diventare solo al medio dialegomai ‘converso’, ‘discuto’, ‘spiego’.
Dato che leghein significa ‘mettere assieme’ e dià ‘separare’, sotto al concetto di dialogo vi è dunque un ossimoro fondamentale: unire dividendo, legare distinguendo, un ‘dire’ che sta in mezzo fra i parlanti, senza essere la parola propria di alcuno, una pratica sempre difficile e problematica”.
Questa dotta spiegazione si deve al semiologo Ugo Volli coautore del saggio e mi serve a dimostrare che sin dalle premesse etimologiche il dialogo non è mai pacificante e il raggiungimento dell’accordo è una strada lunga e faticosa.
Dice ancora Vittorio Robiati Bendaud, l’altro autore: “Per una comprensione del dialogo nella tradizione ebraica si deve partire dalla Genesi, con l’incomunicabilità tra Adamo ed Eva e con un dialogo primordiale, dagli esiti nefasti, cioè il dialogo tra Caino e Abele, che sappiamo esserci stato ma che non viene riportato. Un dialogo che conduce all’omicidio: questo è già significativo del fatto che il dialogo non sempre ha un esito pacificante, però possiamo anche dire che dove finisce la parola inizia la violenza. Quella prima contesa ha portato alla morte di Abele”.
Il contributo dei due autori è importante perché la ricerca filosofica e storica non approderebbe ad alcun risultato apprezzabile se non ci si interrogasse, modernamente, su quali modelli di dialogo sociale e politico risultano avanzati nella nostra comunità e quali Stati ad esempio abbiano conosciuto o conoscano esempi o applicazioni efficaci e vincenti del dialogo fra persone, città, comunità, centri di aggregazione .
Per questo motivo ho tratto spunto dalle interessanti suggestioni dei due autori e del loro saggio per effettuare una ricognizione su possibili, efficaci esempi di democrazia partecipata.
Resto convinto che il naturale approdo di un appropriato dialogo interpersonale sia ravvisabile, in ambito politico, negli esempi più avanzati di democrazia partecipata.
Debbo dire che l’esempio l’ho trovato in una città ben nota ai due autori. Sto parlando di Tev Aviv che, pur provata essa stessa dall’esperienza pandemica, resta un modello di riferimento quanto mai attuale e moderno di democrazia partecipata.
Ho scoperto che a margine di un recente convegno celebrativo della Giornata Europea della Cultura Ebraica svoltosi a Milano il 10 ottobre, al quale ha partecipato la vice sindaco di Tel Aviv Chen Arieli, la stessa, in collegamento con il convegno, ha sottolineato il valore del dialogo come pratica idonea al raggiungimento di una compiuta ed avanzata aggregazione sociale e politica.
In definitiva, partendo dalle diversità di opinioni, l’obiettivo funzionale al progresso civile e democratico è l’esperienza della partecipazione e della concordia.
Ma quali valori e strumenti utilizza allo scopo la città di Tel Aviv?
Riporto in proposito uno stralcio significativo dell’intervento di Chen Arieli: “Uno dei valori portanti di Tel Aviv è l’appartenenza. Un valore portante per realizzare una città pluralista che crei solidarietà tra i cittadini. Mettere in collegamento le autorità e la società civile per ridurre i sentimenti di sfiducia e creare forte solidarietà”.
Gli altri valori basilari per promuovere il dialogo sono l’uguaglianza e l’intersezionalità.
Con il termine intersezionalità, il vicesindaco di Tel Aviv ha inteso lo sforzo di garantire i diritti della maggioranza e delle minoranze, offrendo coinvolgimento e uguali opportunità a tutti i cittadini israeliani.
Arieli ha poi sottolineato quanto la municipalità di Tel Aviv si sforzi nel costruire un dialogo con i suoi residenti, per creare servizi mirati con l’obiettivo di risolvere i problemi della gente.
Dunque attraverso una forma di cittadinanza attiva si vuole costruire un canale comunicativo con chi fa le leggi e amministra la città.
Con lo scoppio della pandemia si sono implementati gli strumenti digitali per interagire con la cittadinanza.
Tel Aviv ha introdotto la carta del cittadino, strumento che l’autorità cittadina ha attivato per conoscere direttamente i bisogni del cittadino.
La città ha poi adottato i communities center per sviluppare efficaci forme di dialogo nei diversi quartieri della città.
Infine ha allargato il confronto con le diverse città del paese attraverso lo strumento consultivo della conference che raccorda i bisogni della città capitale con le esigenze di tutte le altre città della nazione.
Il contributo riportato non nasconde certo la problematicità del dialogo. Sono ben consapevole e conosco gli usi melliflui e ambigui della stessa parola ‘dialogo’, che spesso occulta e rimuove le spinose questioni poste da insormontabili differenze di identità. E so anche che non tutti i dialoghi o le discussioni sono “per amore del Cielo”.
Pur senza pretendere di considerare questo modello la migliore forma organizzativa di contrasto alla crisi sistemico-politica apertasi dopo il triste fenomeno pandemico penso però che occorra sicuramente promuoverne l’utilizzo, anche per valorizzare il risultato raggiunto attraverso il dialogo.
Ma perchè non sia fra sordi è necessario praticarlo con ogni forma di rispetto e tolleranza possibile.