“Tutto il mondo è un palcoscenico, e gli uomini e le donne, tutti, non sono che attori: essi hanno le loro uscite e le loro entrate; e una stessa persona, nella sua vita, rappresenta diversi ruoli”. W. Shakespeare.
Abbiamo conosciuto Caroline Pagani durante il Festival Teatri Riflessi dove ha vinto il premio GinestreTR7 per il suo “corto” teatrale ovvero l’estratto dello spettacolo geniale che interpreterà durante il Fringe Festival qui a Catania ed esattamente al Piccolo Teatro della Città il 27 ottobre alle 17.30 il 28 ottobre alle 19.30 il 29 ottobre alle 21.30 il 30 ottobre alle 17.30.
Per comprendere il tenore dei lavori di Caroline Pagani pubblichiamo un estratto della motivazione del premio Ginestre TR7 attribuito dalla Commissione Artistica di Teatri Riflessi 7 e dal Direttivo di IterCulture [… riconoscere eccellenti capacità interpretative e la raffinata stesura drammaturgica, intrisa di riferimenti letterari e artistici che ne permettono una lettura a diversi livelli, tali da rendere la fruizione facile e piacevole a un pubblico trasversale, dai grandi conoscitori di Shakespeare ai neofiti del teatro e della letteratura, i quali riescono non solo a empatizzare con le sue personagge, ma anche a trarre molteplici spunti di riflessione sul proprio vissuto e sulle emergenze sociali contemporanee…]
Susanna Basile: Come e quando hai iniziato a occuparti di teatro?
Caroline Pagani: Da bambina. Avevo dei vicini di casa artisti, attori, avevo un fratello artista che mi portava a teatro da piccolissima. Potevo così diventare, essere ciò che volevo e non quello che mi si imponeva di essere o avere. Ecco, il teatro è una passione e un mestiere dell’essere, non dell’avere. Anche per vincere una innata timidezza, che in parte rimane. Un attore nella vita può essere timido, anche se magari in scena può fare qualunque cosa. Per contrastare i valori di una famiglia che avrebbe voluto fare di me una avvocata, un’economista, una manager, un’imprenditrice.
S.B.: Come ti sei fatta avviluppare dalle “sabbie mobili” di Shakespeare? E soprattutto come sei riuscita a renderlo trasversale agli intenditori e ai neofiti con le tue “personagge”?
C.P.: In parte perché era un rifugio, in parte perché leggere di vicende così drammatiche, tragiche, mi consolavano. Mi rendevo conto che possono esistere madri che come Medea o Lady Macbeth non hanno il “latte dell’umana tenerezza”, figli onesti e sinceri che vengono rinnegati proprio per la loro sincerità (come Cordelia in Re Lear) fratelli che usurpano, complessi di Edipo non risolti, e di Clitennestra che uccide il marito Agamennone. Ma anche amori impossibili vissuti, bellezza, magia, soprannaturale, folclore, teatro, riflessione sul teatro, metateatro.
S.B.: Tolstoj nell’incipit di Anna Karenina dice che: “Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo”.
C.P.: Io credo invece che si sia infelici più o meno per gli stessi motivi di base, per mancanza d’amore, per il non sentirsi amati, per sentirsi esclusi, per solitudine, o magari perché qualcuno sparisce all’improvviso, per non avere le attenzioni che vorremmo, per non trovare il proprio posto nel mondo o per dover fare molta fatica per trovarlo, per non avere un’esistenza piena di senso. E credo anche si sia felici, chi più chi meno, per gli stessi motivi: perché ci si sente amati, accettati, accolti, perché si trova il proprio posto nel mondo, praticando, facendo, condividendo i propri peculiari talenti, che danno senso all’esistere di ognuno.
S.B.: Ma nonostante tutto come dici tu, le storie, anche quelle di vera vita, diventano interessanti perché ci sono anche “i cattivi”, anzi sono proprio “i cattivi” che ci affascinano di più: come è possibile che spesso “si tifi” per loro?
C.P.: Questo è un tema che mi appassiona molto, lo sto studiando per un testo teatrale e uno spettacolo a cui sto lavorando, dal titolo “Maleficents”.
Credo che siamo attratti dai cattivi perché notiamo una somiglianza con un aspetto della nostra personalità. Simpatizzare con un cattivo immaginario non sembra minacciarci e si riesce a separarlo facilmente dalla realtà. Questa “simpatia”, in cui la cattiveria è espressa in mondi e ambienti immaginari, è forse un modo sicuro, un rifugio, per relazionarsi con i sé più oscuri della nostra personalità. Spesso i cattivi che attirano la nostra simpatia, hanno dei trascorsi familiari che li hanno portati a scegliere la strada sbagliata per avere riscatto, o che essendo stati esclusi dal resto della società, hanno dovuto trovare un modo alternativo per lasciare un segno. In una società in cui si è portati a usare l’emisfero sinistro del cervello, il cervello ingegnere, razionale, analitico, l’uomo ha bisogno di qualcosa che lo stupisca e che non lo faccia pensare, dell’emisfero destro, il luogo dell’interpretazione emotiva, il cervello-poeta: e cosa c’è di meglio di vedere un individuo che perde i freni inibitori e vive momenti di pura follia? Chi non vorrebbe poter finalmente dire tutto ciò che pensa e fare tutto ciò che vuole, senza ripercussioni e senza un minimo senso di colpa?! Spesso i personaggi che non siano semplicemente malvagi hanno delle caratteristiche specifiche che ci “conquistano”: l’intelligenza, l’ironia, qualche difetto che li renda particolari, unici. E al protagonista spesso preferiamo il suo antagonista, perché in lui riconosciamo, rivediamo una piccola parte di noi. Inoltre non abbiamo delle aspettative e non rimarremo mai delusi dai suoi fallimenti e al contrario gioiremo dei suoi successi. Vedere le azioni compiute da un “cattivo/a” ci fa sentire più “buoni”, perché alla fine i nostri problemi e i nostri errori sono comunque meno gravi e recuperabili.
Le fragilità del cattivo, i suoi aspetti più umani, le sue caratteristiche peculiari fanno sì che, senza capirne il motivo, ci sentiamo emotivamente legati al “cattivo”. Venendo a conoscenza delle sue insicurezze, improvvisiamo dei tentativi di giustificazione per le sue azioni immorali. Jean-Jacques Rousseau tratta il tema del male in molti suoi scritti, sostenendo che in natura l’uomo è buono, essendo poi la società a renderlo cattivo. Insomma dei cittadini di una società sempre più inclemente, in cui per riuscire a risolvere dei problemi bisogna essere altrettanto inclementi. Sono temi familiari ad ognuno di noi. Noi ci immedesimiamo nella storia del cattivo. Nei traumi subiti durante l’infanzia, nei rifiuti ricevuti, nel non sentirsi accettati in un mondo che per tutti gli altri sembra così facile. Mostrare affinità o simpatia verso questi personaggi significa che una parte di noi, in una realtà di finzione, comprende quello che fa. Attraverso di loro possiamo vivere esperienze che non faremmo mai nella vita vera, per paura o perché moralmente ed eticamente aberranti. Ci affezioniamo perché nonostante i loro difetti, le loro doti e il loro fascino noi siamo “migliori” di loro.
S.B.: Le donne di Shakespeare sono donne assoggettate o libere dal loro destino?
C.P.: Giulietta è una giovane donna coraggiosissima, che sceglie di amare chi vuole e non chi le viene imposto, a costo della vita. Desdemona abbandona la casa paterna per seguire l’uomo che ama, uno straniero, un “outsider”, un moro, contro la volontà del padre, è una femminista ante litteram. Emilia sostiene che le donne hanno gli stessi desideri degli uomini, anche carnali. Cleopatra preferisce togliersi la vita che subire l’umiliazione di tornare a Roma da perdente. Lady Macbeth traffica con le forze del male. Se Lady Anne è assoggettata alla brutalità e perversione di Riccardo III, la Regina Margherita maledice e insegna a maledire.
Titania si concede sogni erotici inconfessabili e domina il marito. La pulzella di Orléans, Giovanna D’Arco, è libera, ma paga un prezzo molto altro per questa libertà. Ofelia non è libera: ma si rende libera nella sua “follia”, dissociandosi, si crea un mondo libero dove fuggire…
In Lucrezia Violata un raptus di violenza incontrollabile viene raccontato per la prima volta, in modo sconvolgente, dalla parte di lei, Lucrezia. È un archetipo di donna che agisce, che si ribella, che è disposta a sacrificare sé stessa per i suoi ideali. È una storia di violenza e di opposizione estrema alla violenza, ma anche di autonomia e libertà, Lucrezia si arroga il diritto di scegliere se vivere o morire. E attraverso il suo suicidio chiede di essere vendicata, fa finire la monarchia e fa nascere la Repubblica.
S.B.: “Mobbing Dick”, il titolo del tuo spettacolo, un gioco di parole, un doppio senso o un’orrenda verità sulle molestie in ambito lavorativo, visto che Dick sta per…?
C.P: È un titolo, come lo spettacolo, ironico e sarcastico. Parla di Teatro, di Amore, di Eros, di uomini, di donne, anche, tra il serio e il faceto; parla della deprecabilità delle molestie, del ricatto, dell’abuso di potere, soprattutto nel nostro ambiente di lavoro. Benissimo che un regista o chi ha un potere “simile” e un’attrice si scelgano, si amino, si godano… ma se uno dei due non vuole o non può ricambiare, per qualunque motivo, l’aspetto professionale deve rimanere fuori da queste dinamiche e non deve venirne minimamente intaccato o influenzato, né in un senso né in un altro, così come anche simpatia e antipatia non dovrebbero assolutamente inquinare, intaccare, contaminare. È una riflessione su teatro, audizioni, dinamiche di potere, ai tempi di Shakespeare, così come ai giorni nostri. Come diceva Oscar Wilde, “Tutto è una questione di sesso. A parte il sesso: il sesso è una questione di potere”.
S.B.: Scrive Gurdjieff: “Che cosa è che conduce la gente nei caffè, nei ristoranti, nei teatri e alle feste di ogni sorta? Una cosa sola: il Sesso. Ecco la principale sorgente di energia di tutta la meccanicità”. Un altro tuo spettacolo “Luxuriàs”, dal titolo inequivocabile parla di una specifica tipologia sessuale, ce la vuoi raccontare?
C.P.: “Luxuriàs” è ambientato nel V canto dell’Inferno dantesco, nella bolgia dei lussuriosi, quelli del mito e quelli della contemporaneità. È una parabola tragicomica, il viaggio di un personaggio camaleontico, di un’anima impigliata fra desiderio e morte, nostalgia ed eternità. Luxuriàs è una rivolta contro il femminicidio che si fa estasi della parola, ironia dell’eros. Luxuriàs fa di Francesca da Rimini una nostra contemporanea, che vince l’inferno della memoria infelice, e si perde gioiosamente nella tempesta dell’amore e nel desiderio, che tutto vincono. L’Eros, messo in scena così, serve da insegnamento per le nuove generazioni, non ha a che fare col Kamasutra, è un’energia vitale, quella di cui parlavano i Greci. Sì, Platone in particolare… desiderare, (de sidera, le stelle) letteralmente vuol dire: “uscire da stessi per andare verso le stelle”, Eros è una divinità. La seduzione passa anche dal cervello, anzi, direi che è nel cervello, e nel linguaggio. E Shakespeare, pittore di parole, attraverso l’uso del linguaggio, e in un teatro scarno, privo di scenografia, con l’immaginazione, ha veicolato scene e immagini erotiche potentissime. Il drammaturgo non ci fa entrare nella camera da letto dei suoi personaggi, ma noi riusciamo a immaginarli. Basti pensare a Cleopatra che sogna Antonio a cavallo, a Titania che nel bosco vive un delirio amoroso con un asino, a Jago che inscena nella mente di Otello immagini bestiali, (Desdemona montata da un ‘caprone nero’, che sta facendo la ‘bestia a due groppe’), al limite della pornografia.
S.B.: Stai scrivendo un libro su Shakespeare: di cosa parla?
C.P.: È un testo che tratta e analizza le varie sfaccettature dell’Amore e dell’Eros in Shakespeare, nei suoi testi e nei palcoscenici, nelle loro messe in scena. Ha una parte “manualistica” sul teatro elisabettiano, sull’epoca elisabettiana, e una parte saggistica. È sia per gli amanti shakespeariani, sia per neofiti, sia per chi conosce a fondo l’Opera di Shakespeare, sia per chi voglia avvicinarvisi, per amatori e per curiosi. Il discorso sull’Eros in Shakespeare è molto ricco, articolato e “fluido”.
Basti pensare al fatto che il pubblico del tempo poteva innamorarsi del personaggio, ma anche dell’attore e della persona che stava sotto al costume di scena… poco importa quale fosse il suo sesso. Non dimentichiamo che ai tempi di Shakespeare, gli attori che interpretavano i ruoli femminili erano maschi, ragazzi imberbi prima della muta della voce… questo aveva delle implicazioni sugli stili recitativi e di natura sessuale, culturale.
S.B.: Quali sono i tuoi impegni futuri?
C.P.: Oltre a partecipare all’Off Fringe Festival di Catania con “Mobbing Dick”, inciderò un disco, farò uno spettacolo concerto, continuerò a portare i miei lavori in giro per il mondo…
E noi tenteremo di seguirla nelle sue peregrinazioni, perché il suo lavoro ci affascina e incontra perfettamente le ricerche che stiamo effettuando in questo campo.