Il nostro scrittore Alfredo Polizzano, è il proprietario della favolosa steampunk library la Fenice sita a Catania nella zona del centro storico. Sua è la produzione dell’opera in copertina e nell’articolo. Mia è la proprietà dell’opera perché l’ho comprata e ne sono felice. Compreso la scritta sulla sinistra dell’opera “Make your life a show”.
Piccola guida alla fauna cittadina. Fin dalle origini della storia dell’umanità.
No, forse non mi spingerei così indietro.
Diciamo che fin che ci aiuta la memoria recente il Gabbiano è sempre stato accompagnato da una immagine romantica di libertà.
Il biancore delle sue piume, la capacità di librarsi sui flutti hanno sempre evocato alla mente di noi poveri esseri, zavorrati dalla gravità alla terra sabbiosa di queste misere, aride vicende umane, quel sentore di salsedine, di pesce fresco, di brezza tra i capelli, di tramonti infiniti e di confini sempre più lontani.
Come fare a meno di pensare a vecchie immagini di pessimi film di qualche decennio fa, quadri di amplessi amorosi al tramonto, coi capelli al vento e uno stormo di gabbiani in volo verso mete sconosciute?
Vigile sentinella sul faro o appollaiato su uno scoglio, quanti di noi non hanno cercato di immaginare quali reconditi pensieri albergassero in quel piccolo cervello da volatile, in quegli occhietti furbi e malinconici, chissà quali ricordi di approdi lontani e avventure irresistibili.
Nella letteratura non esiste nave pirata senza gabbiani, non esiste avvistamento di balene bianche senza stormi di pennuti candidi ad annunciarne la vicinanza.
Non esiste racconto di mare, nessuno che includa un pescatore che non includa lo stridulo canto di questo nobile animale.
Stridulo sì, perché è inconfondibile, uscendo dall’ideale romantico, lo schiamazzo e il chiasso infernale del gabbiano; ma ci arriveremo con calma.
La letteratura vanta due opere diventate iconiche se non altro nel nome.
Quindi mi viene in mente Il Gabbiano di Anton Cechov, o il recentemente più famoso Gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach.
Ora, mentre la seconda è una citazione che strizza l’occhio alla moda, sono sicuro che molti posseggono una copia di questo capolavoro letterario di Bach, qualcuno lo ha scuramente letto, molti di più ne cantano le lodi pur non avendolo letto e tra questi e quelli c’è sicuramente qualcuno che avrà trovato l’illuminazione spirituale o almeno mutato radicalmente il proprio modo di vivere la vita dopo aver letto le avventure del povero gabbiano Jonathan.
La seconda è più che altro una citazione colta per far annuire il lettore attento come per sottolineare che certamente, ovviamente, naturalmente, chi non conosce la celeberrima opera del più illustre drammaturgo russo dell’epoca contemporanea, fortuna di Stanislawskij e incubo di ogni buon studente di teatro?
Non conosci il teatro se non conosci Cechov, non sei un attore serio se non hai citato almeno una volta Stanislawskij; poi se lo accompagni a Strehler, che va pronunciato rigorosamente omettendo il nome, troppo italiano, Giorgio, per sembrare credibile, ti pone in quello stato mistico di frustrazione e raccoglimento tale da non comprendere come mai ancora non ti sia arrivata una scrittura da protagonista al Globe Theatre di Londra.
Cechov e peggio ancora Stanislawskij rappresentano due tra quei casi cui noi italiani siamo molto legati di stigma di appartenenza.
Ovvero tutti ne parlano, tutti li citano, tutti ne riconoscono l’incommensurabile valore culturale, nessuno li ha mai letti, visti, tantomeno studiati e meno che meno capiti.
Dello stesso triste destino soffrono altri nomi illustri, vedi Giovanni Verga.
Ogni buon catanese sarebbe disposto a ingaggiare un duello all’ultimo sangue contro chi si permettesse inavvertitamente di minarne la grandezza non ammettendo neanche sotto tortura che in realtà se ne conoscono giusto dei brani pescati da una antologia di quando si andava al liceo.
I più volenterosi avranno letto I Malavoglia all’università ma i più esperti hanno visto tutti i suoi film!
Casi a noi più contemporanei come quello del grande maestro Franco Battiato, del quale se ti azzardi a chiedere a chiunque la spiegazione di un suo testo c’è da ritenersi fortunati se nell’arco di un decennio trovi qualcuno che dia una chiave di lettura quantomeno plausibile.
Non si creda che ciò avviene solo per le citazioni colte, tutt’altro. Questo fenomeno si manifesta soprattutto nelle sue versioni al negativo.
Celeberrimi due casi su tutti Barbara d’Urso e Maria de Filippi.
Bionde donne di potere, regine della tv italiana che neanche lontanamente intendo chiamare spazzatura come spesso viene appellata nei salotti culturali, gli stessi dove si citano Verga e Battiato per intenderci.
Presentatrici maniacali e geniali che tutti conoscono e tutti citano e chiunque si vanta di non averne mai guardato in televisione un solo minuto di spettacolo.
Già vedo le pupille dei lettori che si dilatano ad un ronzio che comincia a infastidire i timpani, mi pare di sentire un pensiero profondo tra le tempie che comincia a farsi strada e che quasi giunge alle labbra.
Ammettiamolo serenamente, come è mai possibile questa blasfemia?
Inserire Barbara d’Urso in un discorso che si presupponeva serio, con una certa dose di ironia ma comunque destinato ad un pubblico di lettori che conoscono Cechov e I Malavoglia?
Non farò qui una indagine sociologica del perché quando vidi apparire in una profusione di luce Santa Barbara da Mediolanum abbigliata di pizzo color cipria e ricoperta da ex-voto pendenti dalle orecchie e cuori immacolati adagiati con grazia su un seno ancora prepotentemente attraente e discretamente evidenziato ne rimasi ammaliato come a seguito di una illuminazione divina.
Dirò solo che la considero una delle più riuscite operazioni di calcolo sociale della storia contemporanea cui ogni parola, ogni gesto, ogni sguardo, ogni tormentone è sapientemente sfruttato e diffuso.
Soprattutto da parte di chi pretende di occuparsi di cultura, di cose sicuramente più alte ed edificanti dell’intrattenimento televisivo, dovrebbe essere imperativo studiarla, imparare.
Urge onestà! Se qualcuno riesce a tenere incollati allo schermo milioni di italiani per più di tre ore parlando di argomenti che gli intellettuali definiscono nulla, da questo qualcuno c’è solo da imparare.
Oh come ne gioverebbero le nostre università! I programmi Rai tornerebbero ad essere quelli che erano negli anni cinquanta del secolo scorso, cioè cultura di intrattenimento.
Ah, se solo riuscissi anche io a presentare Alessandro Manzoni o Giuseppe Verdi, così, come fa lei, col cuore!
Forse è questo ciò che manca oggi, il cuore, naturalmente usato al servizio della cultura.
Bisognerebbe ricordare agli intellettuali che un libro non è solo intelletto ma smette di essere arida materia in decomposizione se irrorata proprio dal cuore.
Ma ho divagato abbastanza, torniamo a parlare di gabbiani.
Naturalmente anche nella cultura pop e fin da bambini abbiamo conosciuto celeberrimi gabbiani.
Li abbiamo fatti diventare non più simboli lontani di libertà ideale, di avventura; lontani da quell’immagine romantica che accompagna il vecchio di Hemingway o che fanno da sfondo alle copertine dei romanzi Harmony degli anni settanta.
Uno dei gabbiani che sicuramente riescono ancora a suscitarci un sorriso, che ci ha dato un’immagine goffa e divertente di questo nobile uccello è sicuramente Scuttle.
Più conosciuto come il gabbiano della Sirenetta ha insegnato a intere generazioni dell’intero globo che una forchetta è soprattutto un arricciaspiccia, utilissimo accessorio indispensabile alle acconciature in voga in quegli anni.
Andando a scavare nella memoria ma neanche più di tanto sono molti gli esempi di gabbiani famosi, la gabbianella e il gatto con cui ritorna il tema del volo come simbolo di libertà, fino agli esempi più inquietanti per cui diventa impossibile non citare Uccelli di Alfred Hitchcock in cui simpaticissimi gabbiani attaccano le persone.
A mio parere e vedremo di seguito perché, il celebre maestro dell’orrore è quello che tra tutti si avvicina di più al concetto che i gabbiani sono molto lontani da quell’ideale idilliaco e felice, spensierato e goffo che ci siamo creati.
Veniamo finalmente al punto.
Tutto nasce qualche anno fa quando il caso dei gabbiani a Roma comincia a diventare una specie di piaga sociale.
Cominciato prima quasi come parodia, qualcosa di insolito su cui ironizzare e ridere degenera in problemi molto più seri.
I gabbiani sono praticamente onnivori, sono dei predatori, mangiano qualsiasi cosa e, come molti predatori sfacciati, se hanno a disposizione discariche piene di residui di cibo ci si fiondano senza colpo ferire.
Si noterà bene che già ci si sta scostando dall’immaginario dei gabbiani che spiegano le ali su flutti incontaminati richiamati da magici orizzonti. No, sorvolano a stormi intere discariche infette e putride.
Fin qui è l’impatto devastante che l’uomo ha sulla natura.
Fatto è che questi esseri candidi dall’apertura alare più ampia di quanto si pensi e dal becco degno di a un’arma in dotazione alla più crudele banda sudamericana, cominciano a capire che anche le città soffrono della raccolta dei rifiuti, quindi perché aspettare che l’immondizia arrivi in discarica quando puoi andarla a raccogliere appena gettata, fresca fresca di consumo?
Quello che potrebbe sembrare un bel panorama come i piccioni in piazza San Marco a Venezia diventano enormi gabbiani in piazza San Pietro a Roma.
Cominciano così a diffondersi notizie e video divertenti di questi volatili che rubano addirittura in volo interi panini ai turisti, gelati ai bambini e leccornie varie.
Il ragionamento anche sta volta è di una semplicità criminale agghiacciante: perché andare a scavare nell’immondizia accumulata da giorni a ridosso dei cassonetti quando puoi prendere il cibo di prima mano direttamente dai passanti che lo stanno consumando?
È divertente quando senti la notizia, e sembra quasi una barzelletta o un comportamento bizzarro se non fosse che questi enormi rapaci non si accontentano di borseggiare abitanti e turisti cominciano con le minacce e le intimidazioni.
Ti fanno del male se non gli consegni di tua spontanea volontà ciò che stavi mangiando e quindi cominciano ad organizzarsi in bande armate.
Guai a trovarti da solo in un vicolo sperando di mangiare un trancio di pizza.
Loro lo sanno! Hanno pattuglie volanti più efficienti dei droni dell’esercito.
Sorvolano la città organizzati a gruppi di tre o di cinque passando al setaccio coi loro occhietti tondi ogni angolo di strada, in attesa che qualche sprovveduto col panino in mano si allontani dal gruppo.
Un grido, uno di quei versi che fanno molto pittoresco, di quelli inseriti degli audio per meditare coi suoni della natura e del mare.
Per loro quel grido è il segnale.
Attaccano!
Scendono in picchiata, prima planando a spirale e poi giù senza misericordia.
Quindi prestate molta attenzione quando rapiti alla vista di un monumento tenete svogliatamente il vostro gelato in mano; attentissimi se su un molo pregustate di addentare il vostro panino ma soprattutto non avventuratevi mai, in pieno giorno, in vicoli solitari alla ricerca di scorci istagrammabili e soprattutto mangiate in fretta ciò che avete perché potrebbe essere l’ultima occasione che avete prima di vederlo sparire nell’alto dei cieli.