Quel sabato pomeriggio del 23 maggio 1992 era probabilmente caldo, come la precoce estate siciliana di ogni anno. Fino alle 17:56, l’autostrada A29 bruciava sotto il sole com’è possibile immaginare. Dal minuto successivo, un tratto di quell’autostrada nei pressi di Capaci bruciava sotto una coltre di fumo, com’è impossibile dimenticare.
Nell’edizione straordinaria del TG5 di quella sera, Enrico Mentana dichiarò:
Per uccidere Giovanni Falcone sono stati impiegati, pensate, mille chilogrammi d’esplosivo. Una carica dalla potenza devastante, che ha letteralmente polverizzato un lungo tratto dell’autostrada che dall’aeroporto di Punta Raisi porta a Palermo, vicino allo svincolo di Capaci. Proprio sotto il cavalcavia dello svincolo era stato collocato l’esplosivo, un’azione evidentemente preparata con cura e con un dispiegamento ingente di mezzi e di coperture da parte delle organizzazioni mafiose. Pensate cosa vuol dire poter piazzare una tonnellata di tritolo, con gli apparati del comando a distanza, tenerli celati, poter sincronizzare l’attentato con il passaggio della macchina di Falcone. La mafia aveva evidentemente uomini all’aeroporto di Punta Raisi, per verificare l’avvenuto atterraggio del volo e tutto il tragitto dallo scalo al punto dell’esplosione.
È il culmine del periodo stragista mafioso; alle 16:59 del 19 luglio, appena cinquantasette giorni dopo la strage di Capaci, verrà ucciso Paolo Borsellino con novanta chilogrammi di tritolo dentro una Fiat 126 rubata, parcheggiata sotto il palazzo dove abitavano la madre e la sorella del magistrato. Sei giorni dopo la strage di via d’Amelio scatterà l’operazione Vespri Siciliani, con un impiego di centocinquantamila militari per pattugliare le strade della Sicilia fino al 1998. A distanza di trent’anni da quel periodo, in cui una realtà fino ad allora taciuta – o di cui era stata addirittura negata l’esistenza, considerata frutto di giornalismo tendenzioso o elemento fiabesco popolare – ha manifestato la condotta più eclatante della sua esistenza, il dizionario della Treccani cita nella voce mafia:
Termine con cui si designa il complesso di piccole associazioni criminose (dette “cosche”), segrete, a carattere iniziatico, rette dalla legge dell’omertà e regolate da complessi riti che richiamano quelli delle compagnie d’arme dei signori feudali, […], sviluppatesi in Sicilia (spec. occidentale) nel sec. diciannovesimo, soprattutto dopo la caduta del regno borbonico; […] funzione di mediazione esercitata nell’economia del latifondo […].
La voce prosegue con nozioni esatte, ma concentrate solo sul carattere di associazione a delinquere della mafia. Un secondo punto della voce definisce il termine una tendenza a sostituirsi alla legge con l’azione o il prestigio personale, un terzo punto ostentazione di eleganza, di spavalderia. Anche queste nozioni sono esatte ma, probabilmente, ancora non è abbastanza per comprendere cosa effettivamente sia la mafia.
Il 26 settembre 1991, un anno e otto mesi prima la strage di Capaci, Giovanni Falcone è ospite al Maurizio Costanzo Show. In collegamento con lo studio, Michele Santoro consente a un uomo del pubblico d’intervenire in un clima già teso; l’uomo sostiene che quella sera è stata sferrata una volgare aggressione alla classe dirigente migliore che abbia la Democrazia Cristiana in Sicilia. Accusa di giornalismo mafioso, di aver dimenticato di dire che un giudice corrotto ha costruito l’intera storia su un pentito volgare che mette a repentaglio e delegittima la classe dirigente siciliana solo perché serve al Nord, di non aver detto nulla su un magistrato che prima è andato in America, poi si è ammalato, ora chiede trasferimenti. Dieci anni dopo, quell’uomo diventa Presidente della Regione Siciliana e tale resterà per gli otto anni successivi. A fronte di queste dinamiche, è possibile limitarsi a definire la mafia un’associazione a delinquere?
Perché esiste?
Nick Gentile era un mafioso di Siculiana che ha vissuto a Philadelphia nella prima metà del Novecento, per poi tornare in Italia con la bollatura di soggetto indesiderato dagli Stati Uniti d’America. Nella Roma del 1950, Gentile detta un’autobiografia al giornalista Felice Chianti de L’Ora, mentre dispensa un esempio molto interessante a un giovane Andrea Camilleri: se un uomo gli avesse puntato contro una pistola mentre era disarmato, ordinandogli d’inginocchiarsi, Gentile si sarebbe senz’altro inginocchiato. Ma non per questo quell’uomo sarebbe stato un mafioso; più che altro, un cretino con una pistola in mano. Dunque, Gentile inverte la situazione: se lui avesse chiesto a quell’uomo di inginocchiarsi, ma disarmato e propenso a spiegargli che quel suo inginocchiarsi è per il bene di tutti fino a convincerlo, sarebbe stato un mafioso. Gentile però sottolinea che, in quell’esempio, se non fosse riuscito a convincerlo a inginocchiarsi avrebbe dovuto sparargli; ma non è che ho vinto. Ho perso, conclude.
Gaetano Mosca, esponente della Destra Storica tra l’Ottocento e il Novecento, nel suo saggio Che cosa è la mafia la definisce una maniera di sentire con l’obiettivo di ottenere il massimo beneficio col minimo sforzo.
La dichiarazione di Mosca sembrerebbe in contrasto con quella di Gentile, dato che quest’ultimo illustra un metodo fondato sulla ragionevolezza – finché non spara, almeno – e il secondo uno sulla sbrigatività. Per comprendere al meglio questa coesistenza è sufficiente focalizzare lo scopo della mafia e la sua collocazione nella società e, per fare ciò, basta immaginare la società come un’enorme pista da corsa che dispone di partenze differenti per gli atleti: arbitri, riflettori e pubblico si concentrano sui primi atleti, ossessionati dall’idea di salire sul podio. Chi è destinato a gareggiare nei punti più distanti dal traguardo, dalla speranza di vincere e dall’attenzione di qualsiasi arbitro, tende a perdere il senso di quella gara, troppo lontana dalla sua prospettiva perché possa sentirsi coinvolto; non avverte irreale solo il raggiungimento del podio, ma anche il suo stesso gareggiare e, di conseguenza, le regole della gara perdono ogni valore. Per questo motivo a qualcuno degli ultimi atleti verrà naturale tentare un riscatto tagliando il percorso della pista in diagonale e, una volta scoperto che è possibile farlo, coltivare la speranza di ritrovarsi addirittura tra i primi; almeno, finché non interviene l’arbitro. E i maggiori interessati perché l’arbitro intervenga e punisca severamente l’atleta scorretto sono proprio quelli prossimi al traguardo, perché non concepiscono il disagio degli ultimi atleti ma soprattutto perché, nella malaugurata ipotesi che tutti gli ultimi atleti decidessero di raggiungerli in massa tagliando il percorso in diagonale, la gara sarebbe annullata e con sé il podio, insieme alla pista in cui loro sono i primi; tutti i loro interessi sono nelle mani degli arbitri ma, come già evidenziato, per gli ultimi atleti le regole hanno perso valore e non bastano di certo per incentivarli a non infrangerle. Ecco, dunque, che i favoriti si accordano con dei predicatori perché convincano gli ultimi atleti che, se rispetteranno le regole, accederanno a un podio dei cieli quando la gara sarà conclusa. Eppure, ogni tanto accade che qualcuno degli ultimi non abbocca alle prediche e riesce comunque a eludere la sorveglianza, mescolandosi fra i primi e integrandosi talmente bene da rivelarsi uno dei più timorosi e intolleranti nei confronti degli ultimi. Allora avviene che qualcuno, indifferentemente dalla sua distanza dal traguardo, si sottragga alla gara e si offra di sparare a chiunque tenti di tagliare il percorso. Questo qualcuno non ha bisogno di salire sul podio, tanto meno di gareggiare, perché il patto coi favoriti prevede che beneficerà delle tre medaglie a prescindere da chi vince; praticamente, ha già vinto. Ed è ovvio che, se qualcuno dei favoriti non accettasse la condizione, gli altri avrebbero tutto l’interesse perché il contestatore venisse squalificato dall’arbitro, subisse un infortunio o, nell’ipotesi più estrema, quel qualcuno potrebbe sempre sparargli come fa con gli ultimi. Quel qualcuno ha gli atleti favoriti in pugno e, in brevissimo tempo, non ha più bisogno neanche di sparare, perché convince gli stessi ultimi a farlo in cambio di una postazione migliore in gara e l’impunità da parte dell’arbitro. Infatti, se l’arbitro intervenisse contro uno dei protetti di quel qualcuno, su sollecitazione di quest’ultimo si farebbe nemico i favoriti che danno un senso alla gara stessa, senza cui non avrebbe ragione di esistere la sua figura. E, nella peggiore delle ipotesi, persino l’arbitro non sarebbe esente da una fucilata.
Così la mafia riesce ad apparire un’entità distaccata e ad essere coinvolta allo stesso tempo. Ecco perché, nell’esempio di Gentile, il mafioso spiega all’altro che deve inginocchiarsi “per il bene di tutti”; nella sua ottica tanto sottile quanto deviata lo è. Ecco perché, allo stesso tempo, il mafioso ottiene il massimo risultato col minimo sforzo; opera da mediatore tra le classi sociali, traendone profitto da tutte e facendo leva sulle corruzioni già esistenti, insinuandosi parassitariamente nel tessuto sociale.
Tre magistrati vorrebbero oggi diventare procuratore della Repubblica. Uno è intelligentissimo, il secondo gode dell’appoggio dei partiti di governo, il terzo è un cretino, ma proprio lui otterrà il posto. Questa è la mafia.
(Frank Coppola a un magistrato in visita, dopo il suo arresto del 1980)
Crimine comune o potere politico?
Ora che è chiaro il fulcro della mafia, è necessario tenere presente che l’elemento fondamentale della sua origine è l’assenza dello Stato. Come nell’esempio della gara di corsa, va smentita l’ipotesi che abbia conquistato il potere politico nel tempo e, anzi, bisogna riconoscere che nasce proprio in funzione dello stesso. D’altronde, nel canovaccio del 1863 I mafiusi di la Vicaria di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca, la mafia trova la sua più alta espressione nel personaggio dell’Incognito, figura educata ma reclusa nel carcere dell’Ucciardone di Palermo – chiamato “Vicaria” dai palermitani per l’abitudine al nome del vecchio carcere, chiuso nel 1842 – dove Gioacchino, riferimento autorevole per tutti i carcerati, appena lo riconosce gli bacia la mano e lo serve umilmente. Per buona parte dei quattro atti, la vicenda si svolge all’interno di un carcere siciliano del 1854 dove alcuni detenuti sono accomunati dalla stretta osservanza di una gerarchia graduale e di un rigido codice che si appella al loro onore; l’epilogo si svolge all’esterno, dove gli ormai ex carcerati mantengono la stessa gerarchia e l’Incognito torna a ricoprire un ruolo tra le istituzioni. In alcune versioni, create successivamente dagli stessi due autori e attori per il timore di subire ripercussioni giudiziarie, conclude inverosimilmente – con toni tanto forzati da apparire quasi comici – con una repentina benevolenza dell’Incognito che induce Gioacchino a scegliere una vita onesta. Un secolo dopo, Leonardo Sciascia renderà più esplicito il messaggio con un riadattamento, ambientato nel 1861 e intitolato I mafiosi, dove l’Incognito diventa esplicitamente deputato nel nuovo Parlamento dell’Italia Unita con l’ovvio sostegno di Gioacchino e degli altri mafiosi. Se l’Incognito di Rizzotto e Mosca è stato associato a Francesco Crispi – in verità, senza particolare fondamento – quello di Sciascia è identificabile probabilmente nella figura del deputato Raffaele Palizzolo, responsabile dell’omicidio del marchese Emanuele Notarbartolo, ex sindaco di Palermo e nominato dal governo Depretis direttore del Banco di Sicilia. Oltre che in Parlamento, Palizzolo sedeva al consiglio d’amministrazione della banca e intercedeva nei rapporti clientelari tra politica e baronie sulla speculazione dei latifondi che, puntualmente, venivano lasciati amministrare liberamente dai campieri. Un modo di fare fortemente ostacolato da Notarbartolo, già noto per aver debellato la corruzione alle dogane durante il suo mandato di sindaco. Venne rapito nel 1882 in un esplicito atto intimidatorio e, insediatosi il nuovo governo presieduto da Cairoli nel 1890, fu dimesso dalla direzione del Banco di Sicilia senza il riconoscimento della pensione; infine, nel 1893, venne ucciso da ventisette coltellate su un treno. Raffaele Palizzolo fu condannato a trent’anni di carcere, ma poi la sentenza venne rigettata e fu assolto per insufficienza di prove.
Nun è omertà, nun è vigliaccheria Si l’omu onestu nun havi garanzia.
(Ignazio Buttitta, Che cos’è la mafia)
Dove e quando ha origine?
Non si cada però nell’equivoco che la mafia abbia avuto origine durante il Risorgimento, perché le sue radici sono sconosciute e, probabilmente, sono andate a crearsi spontaneamente sin dalle corporazioni medievali. È incerta persino l’etimologia: anche l’etnologo Giuseppe Pitrè alza le mani nel suo resoconto del 1889 La mafia e l’omertà, limitandosi a spiegare che nel quartiere Borgo di Palermo il termine era d’uso popolare per indicare qualcosa o qualcuno di bello e di spavaldo; e il giornalista Giuseppe Fava, ucciso nel 1983 per aver dimostrato l’esistenza della mafia nella Sicilia Orientale – si parlava ai tempi di “immunità territoriale” – e ostacolando gli imprenditori denominati “i cavalieri dell’apocalisse mafiosa”, sostenne la matrice popolare del Pitrè. Alcuni studiosi ricorrono all’arabo mahias, millanteria, o il toscano maffia, miseria, termine tra l’altro usato in un rapporto del 1865 dal prefetto di Palermo Filippo Antonio Gualtiero per indicare gruppi politici corrotti locali. Tra le origini più pittoresche e poco credibili c’è il francese maufe, il demone a protezione dei cavalieri del Tempio di Gerusalemme, o ancora l’ipotesi di una sigla legata agli ambienti di Giuseppe Mazzini: Mazzini Autorizza Furti Incendi Avvelenamenti. A proposito di Mazzini, è opportuno sottolineare che per il carattere iniziatico e la presenza nei contesti sociali e politici, nel corso della Storia è stato confuso più volte il fenomeno del brigantaggio, delle società segrete risorgimentali e delle istituzioni massoniche con la realtà mafiosa, senza che però sussista in origine alcuna reale correlazione fra loro; anzi, la confusione è evidente e spiegabile.
A riprova di un’origine più remota intervengono le memorie di Patrick Bydone, turista inglese in Italia, nonché ispirazione del più celebre viaggio di Goethe. Quando visitò la Sicilia, Bydone fu raccomandato dai potenti dell’isola a una scorta di banditi, presentati come la migliore protezione per girare indisturbati in Sicilia, poiché appartenenti alla rispettabilissima Honorabile Confraternita. Lo stupore della circostanza spinse Bydone a riportare due aneddoti per descrivere il potere e l’efferatezza di questi banditi: in uno, in seguito a un arresto di massa per aver profanato delle tombe in cerca di un sedicente tesoro sepolto, uno di questi si identificò come appartenente alla confraternita e ottenne in breve tempo l’ordine di scarcerazione direttamente dal console di Spagna. Nell’altro, un uomo tentò un’estorsione a un prete di campagna sfruttando il nome del fratello bandito a sua insaputa; quando quest’ultimo lo venne a sapere e ne ebbe conferma, freddò il fratello con una fucilata in presenza del prete e affermò subito dopo: Ora, monsignore, non avrete modo di dubitare che io non mi sarei mai permesso di pretendere soldi da voi.
Gli autori Vincenzo Linares e William Galt – pseudonimo di Luigi Natoli – si sono occupati di una ricostruzione sulla leggendaria setta dei Beati Paoli, detti I vendicosi: uomini che si radunavano nei sotterranei di una chiesa palermitana travestiti da frati dell’Ordine dei Minimi, devoti a San Francesco di Paola, per stabilire la vita e la morte dei potenti in base alla loro condotta. Più volte è stata ipotizzata una connessione con l’origine della mafia ma, oltre a non avere sufficienti elementi di comparazione, una leggenda non può disporre per sua natura di abbastanza elementi neanche per dimostrare la sua stessa veridicità. È altrettanto vero che l’origine affonda nelle confraternite, come suggerito involontariamente da Bydone; e in Sicilia le confraternite formate da laici – non sarebbe plausibile un prototipo esclusivamente “monastico” della mafia, sia per la sua natura di operare liberamente in più classi, sia per l’espansione che ha avuto nei secoli successivi – prendono piede almeno dal Duecento, quando anche gli artigiani si radunavano in confraternite denominate gilde.
Con questi elementi sono più chiari i motivi di tanta confusione tra mafia, brigantaggio, società segrete risorgimentali e istituzioni massoniche; se dei gruppi appartenenti a queste ultime due categorie hanno intrecciato successivamente relazioni, viene da sé che si è trattato della costituzione di consorterie deviate, alla stregua delle ditte di calcestruzzi che occultarono i “cadaveri eccellenti” della mafia nei piloni di cemento nel periodo delle grandi speculazioni edilizie. E la mafia è sempre pronta a intaccare qualsiasi ambiente per confondersi e mutare la forma, ma mai la sostanza.
La mafia è una vecchia puttana che ama strofinarsi cerimoniosamente alle autorità per adularle, circuirle e… incastrarle.
(Cesare Mori, Con la mafia ai ferri corti)
Come opera?
Jon Roberts fu uno dei protagonisti del narcotraffico di Miami negli anni Ottanta, tanto che la sua autobiografia reca il sottotitolo: La vera storia dietro Scarface. Il suo vero nome era Joe Riccobono, nato a New York da genitori italiani e confluito per “continuità paterna” nella Famiglia Gambino della Grande Mela, prima di mettersi nei guai e fuggire a Miami, dove intraprese un fortunato sodalizio con i cartelli colombiani. Roberts spiegò la condotta tipica mafiosa con estremo pragmatismo: se una persona tamponasse l’auto di un mafioso, è certo che il mafioso comprerebbe un’auto nuova alla persona a prescindere dalla colpa e dall’entità del danno. Dalle parole di Roberts sembrerebbe conveniente tamponare i mafiosi, se non fosse che proprio questa è l’origine dell’omertà. Infatti, facendo leva su un presupposto di colpa dell’altro e reagendo in misura eccessivamente generosa, la mafia “compra” il consenso e, se un domani quel mafioso avesse bisogno di un testimone a suo favore per un caso d’omicidio o di qualsiasi altro atto completamente estraneo a quel piccolo incidente d’auto, saprebbe a chi rivolgersi per pretendere un’eccessiva generosità da ricambiare. Potrebbe aver bisogno solo di una persona che garantisca quanto sia una brava persona davanti al giudice, oppure di una vera e propria testimonianza falsa; tutto è possibile quanto dovuto, pena la morte. Bisogna tuttavia prestare attenzione a questo dettaglio: è raro che la mafia minacci apertamente ed è certo che non usi la minaccia come prima risorsa di persuasione, sia perché la sua stessa vicinanza è sufficiente a suonare come una minaccia e sia perché, al contrario del pensiero comune, l’omertà non si regge sulla paura. Anzi, la paura può provocarne proprio il suo abbattimento. Non è un caso che la maggior parte dei pentiti si siano palesati nei periodi più efferati come quello delle stragi o, meno conosciuto, il periodo del prefetto Cesare Mori.
Di origine lombarda, abbandonato in fasce in un brefotrofio nel 1871 e cresciuto con un senso elevatissimo dello Stato che lo aveva allevato, Cesare Mori si distinse per l’intransigenza, la durezza e l’assenza di qualsiasi forma reverenziale. Quando venne trasferito a Castelvetrano nel 1903, contrastò energicamente il banditismo tanto da guadagnarsi la nomina a commissario, che gli consentì di colpire l’efficace rete politica locale che aiutava i banditi, sfuggendo con disinvoltura a diversi attentati e venendo assolto dalle accuse per abuso di potere; in quell’occasione riferì a Roma di voler indagare maggiormente sulla presunta esistenza di un terzo misterioso fenomeno oltre al banditismo e alla corruzione politica, motivo per cui venne trasferito nuovamente con l’espediente della nomina a vicequestore. Mandato nuovamente in Sicilia durante la Prima Guerra Mondiale per la conoscenza del territorio, stavolta al comando di squadre speciali contro i renitenti alla leva costituitisi in bande criminali nelle campagne, dopo onori di cronaca per fatti eclatanti come trecento arresti compiuti in una sola notte e duelli degni di un film western, Mori ribadì a Roma di voler indagare sul fenomeno mafioso, puntualizzando quindi di voler rastrellare non soltanto tra i fichi d’india ma negli ambulacri delle prefetture, delle questure, dei grandi palazzi padronali e, perché no, di qualche Ministero. Lettera che gli costò un nuovo trasferimento. Nel 1924, quando Mussolini visitò la Sicilia e venne accolto da figure come Francesco Cuccia, sindaco di Piana dei Greci e capomafia locale – che lo rimproverò per essersi portato la milizia come scorta, come se non si fidasse “dei suoi uomini” per proteggerlo – non esitò a far trasferire nuovamente Cesare Mori in Sicilia, stavolta con la nomina di prefetto, pieni poteri e persino con la disponibilità di emanare nuove leggi per favorire il raggiungimento del tanto agognato obiettivo: sconfiggere la mafia. Compì migliaia di arresti tra malavitosi e politici locali, sempre con episodi eclatanti e di stampo quasi leggendario – come l’assedio di Gangi, in cui furono gli stessi abitanti a consegnare i mafiosi alle forze dell’ordine – creando inconsapevolmente una nuova categoria di mafiosi, fino ad allora rara: i latitanti. Senza esitare di ricorrere a minacce per impedire alle autorità di favoreggiare i mafiosi nei processi, comparvero anche i primi testimoni. Ma quando le indagini lo condussero a colpire le connivenze in camicia nera, Cesare Mori venne nominato senatore e trasferito a Roma, accolto propagandisticamente come l’uomo che ha sconfitto la mafia, ovviamente con suo rammarico, consapevole di non aver affatto raggiunto l’obiettivo.
Lo Stato fu presente in Sicilia grazie a Cesare Mori, così come fu presente grazie al pool antimafia decenni dopo. E in entrambi i periodi aumentarono i latitanti e gli attentati, che provocarono testimoni e persino pentiti. È determinante per comprendere quanto la paura possa rivelarsi deleteria per l’omertà, sorretta invece da un sistema di favori e ricatti originati da un clima corruttivo preesistente. Inoltre, non è da sottovalutare il continuo intervento dello stesso Stato per ostacolare Mori, operando trasferimenti ogni volta che si avvicinava al fenomeno mafioso. Questo ruolo di disturbo venne poi ricoperto con solerzia da alcune voci della stampa e dell’opinione pubblica contro Falcone e Borsellino, con proteste per lo spiegamento di sirene nelle ore della notte o con l’insinuazione di aver simulato l’attentato alla villa dell’Addaura che Falcone aveva affittato nell’estate del 1989.
In Sicilia si muore perché si è soli.
(Giovanni Falcone, Cose di Cosa Nostra)
Un problema culturale?
La Storia ha dimostrato come la mafia sia in grado di mutare forma, pur di sopravvivere. L’ha fatto a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento durante l’emigrazione negli Stati Uniti, costituendo la Mano Nera e mescolandosi col gangsterismo, prima di reinventarsi in un summit ad Atlantic City nel 1946 in cui Lucky Luciano – siciliano trapiantato da bambino a New York, distintosi per un’ascesa criminale che lo fece diventare uno dei boss d’oltreoceano più influenti e per aver ricevuto visite in carcere dai servizi segreti americani durante la Seconda Guerra Mondiale, prima che gli americani sbarcassero in Sicilia e nominassero oltre sessanta sindaci mafiosi – dichiarò che quella nuova organizzazione non doveva essere né una cosa associabile ai gangster né a quei capimafia dai lunghi baffi, ma doveva essere una cosa nostra. L’ha fatto quando favorì gli addestramenti del terrorismo neofascista jugoslavo nella Sicilia degli anni Quaranta e uccideva sindacalisti come Placido Rizzotto e Accursio Miraglia, appoggiando a modo suo la propaganda democristiana sulla minaccia rossa. L’ha fatto con l’arrivo della droga, prima limitandosi a finanziarne le spedizioni e poi, con la “prima guerra di mafia” negli anni Sessanta, introducendola tra le attività, scelta che favorì l’ascesa del Clan dei Corleonesi con la “seconda guerra di mafia”, ricordata come La mattanza. L’ha fatto ancora con la guerra dei Corleonesi allo Stato e lo sta facendo anche adesso, epoca in cui stiamo assistendo a una sua trasformazione demagogica. La mafia di oggi parla di sé, parla soprattutto di antimafia, è pronta a urlare la celebre frase di Peppino Impastato: La mafia è una montagna di merda; è pronta a tutto, pur di recuperare il dono dell’invisibilità che ha perso per il mutare dei tempi e per via del periodo delle stragi. Tuttavia, tra gli aspetti immutati, resta l’alta considerazione che ripone nei confronti della cultura; la loro, ovviamente. E non si creda che sia solo una simbologia come quella delle tre scimmiette che si coprono occhi, orecchie e bocca con la scritta: Non lo so, non l’ho visto, non c’ero e se c’ero dormivo.
Ancora vige la diceria di una mafia che in passato – dopo l’omicidio e lo scioglimento nell’acido di Giuseppe Di Matteo nel 1996 non sarebbe credibile parlare del presente – non uccideva donne e bambini, storicamente smentito da figure come Emanuela Sansone, uccisa a diciassette anni nel 1896, e come Giuseppe Letizia, ucciso a dodici anni nel 1948. Soprattutto nei quartieri popolari della Sicilia, vige la diceria che la mafia risolveva i problemi della gente comune e che, fino al comando di Totò Riina, “difendeva” la Sicilia da minacce terroristiche; un paradosso, dato che Riina fu l’artefice massimo della condotta terroristica della mafia, così convinto di essere un terrorista lui stesso che quando fu avvisato di un possibile coinvolgimento di bambini in vista di un attentato avrebbe risposto: Anche a Sarajevo muoiono tanti bambini, perché ci dobbiamo preoccupare noi?
Ma è proprio l’ambiguità dei paradossi che garantisce il supporto alla mafia: la madre, moglie o figlia del mafioso, rinchiusa in un contesto strettamente patriarcale, può rivelarsi in realtà un elemento di punta o addirittura un capo, come nel caso di Giusy Vitale, prima donna condannata per associazione mafiosa nel 1998. Nel caso delle donne è palese l’ambiguità: il contesto è patriarcale, ma la donna può comandare – ancora non risultano donne affiliate libere da parentele mafiose, ma potremmo semplicemente non saperlo. A questo proposito, bisogna tenere conto che la mafia conta ancora oggi di moltissimi affiliati imparentati fra loro – alla pari di un maschio. Sarebbe un grave errore credere che la mafia abbia una mentalità arretrata, semmai è uno specchio della nostra società con meno ipocrisia sui pregiudizi; è antica, non stupida.
La demagogia mafiosa è forse uno degli elementi principali del fenomeno, perché è lo strumento per ottenere consenso, legittimità e, a lungo andare, la legalizzazione del fenomeno. Perché un sindaco che sale per aver designato tanti candidati al consiglio comunale quanti siano i voti utili, sfruttando quindi l’assenza di una legge che imponga o favorisca un monitoraggio sulle candidature, annulla o riduce drasticamente la necessità di ricorrere al voto di scambio. Allo stesso modo, un consorzio di attività commerciali che prevede la quota per un socio che non dà alcun apporto, così come l’ingaggio regolare in una ditta di un lavoratore pressoché inesistente, sostituisce il pizzo e incrementa i guadagni in tutta sicurezza. E i figli dei mafiosi che intendono studiare possono ritrovarsi ingegneri, avvocati, economisti, medici, docenti universitari, con pieno appoggio e sostegno della mafia perché, se prima i mafiosi dovevano rivolgersi a professionisti esterni per gestire il denaro nelle banche o anche solo per essere difesi in tribunale, adesso possono riporre cieca fiducia sui loro simili laureati.
Le famiglie mafiose, forse, possono essere considerate alla stregua di un’azienda, ma la mafia dimostra di essere ancora estremamente vicina a come veniva chiamata dal Settecento alla prima metà del Novecento: Honorabile Confraternita prima e Onorata Società dopo, ma sempre di confraternita o società si tratta. E in una società è impensabile che esistano solo soldati o generali come sono i meri esecutori che, com’è intuibile dagli esempi di trasformazione succitati, hanno un ruolo fondamentale ma meno importante di una volta, anche per via dell’immigrazione. Infatti, se i primi periodi d’emigrazione italiana in America furono gestiti da criminali di altre provenienze europee, in breve tempo vennero gestiti esclusivamente dagli stessi italiani, che poi presero piede nei racket fino a raggiungere le sfere della politica. Nell’Italia di oggi la mafia mantiene ancora il suo ruolo sul territorio, ma sempre più delegato a gruppi criminali stranieri come la mafia nigeriana, ormai esponente di spicco nella gestione dei flussi migratori e nello sfruttamento della prostituzione delle connazionali. Questo complesso processo di trasformazione è ancora in fase di sviluppo e sarà più chiaro negli anni a venire.
La demagogia mafiosa spinge il fenomeno oltre l’infiltrazione in società: la mafia diventa un vero e proprio supporto per le imprese, come una nota casa discografica posta a sequestro nel 2021; i cantanti riempivano le piazze popolari, quelle piazze dove nessuna impresa culturale si sognerebbe di investire per proporre i suoi spettacoli e tanto meno troverebbe un supporto adeguato da qualsivoglia investitore.
A conclusione di un’analisi lunga e ambiziosa per spiegare cosa sia la mafia è di estrema rilevanza valutare un ultimo termine: cultura. A fronte di una mafia “culturale”, è opportuno domandarsi se lo Stato e le istituzioni abbiano compreso l’importanza di contrastare con una cultura che non sia retorica. Le bandiere, i cortei, le manifestazioni antimafia sono importanti per mantenere la memoria e coinvolgere i cittadini e le scuole ma, fuori dal contesto, che ruolo attivo ricopre la cultura nel nostro Paese? Finché l’arte e la cultura non saranno garantiti come un servizio, alla pari della sanità e dei trasporti, finché nuove voci e iniziative non saranno supportate dagli enti pubblici e privati senza storcere il naso per l’effettiva difficoltà di un rientro economico, finché l’arte e la cultura saranno isolate non disporremo dell’arma fondamentale per la lotta alla mafia. È certo che sull’inefficienza di supportare arte e cultura trionfi lo stesso motto dell’omertà: Non lo so, non l’ho visto, non c’ero e se c’ero dormivo. Perché, dall’altro lato del fronte, la mafia sa, vede, c’è ed è sveglia: è cosciente di come e quando avrà il suo rientro economico, ormai può contare su un’industria culturale florida, è consapevole del senso politico dell’arte, del potere emotivo, e lo usa dal mero intrattenimento alla propaganda per la sua demagogia. Perché, quando investe sulla sua cultura, la mafia non bada a spese.
Io non c’ero e se c’ero dormivo, Ho la colpa di sentirmi più vivo Di lei.
(Se c’ero dormivo, dall’album Pro fondo Pro bono)